mercredi 23 décembre 2015

Image result for presepeNumero speciale dedicato a Bergoglio: il papa della pace…come Cristo e Francesco.
LA NATIVITÀ
753 anni dopo la Fondazione di Roma, a Betlemme nasce Gesù Bambino. Dopo solo 33 anni la sua condanna alla cricifissione, emessa a Gerusalemme da Ponzio Pilato, passa alla storia come il processo più sconcertante dell’umanità; divenendo, intanto per noi cattolici, il sine qua non di quella Resurrezione che ha redendo il mondo. Natività e crocifissione: le radici della nostra anima…perché strapparle dai nostri cuori?  Francesco d’Assisi, il santo dalle stimmate – l’altro Cristo, istituisce a Greccio la natività con il primo presepio vivente della storia. L’otto dicembre scorso papa Bergoglio, l’altro Francesco, apre la porta santa per il Giubileo speciale della Misericordia. Papa Francesco…un sovrano della terra che invita anche tutti gli altri, di buona volontà, a combattere il terrorismo col cuore dell’umanità, ovvero con l’umanità del cuore; un sovrano che porge l’esempio a «dar cuore ai miseri» per dissipare la paura da ogni animo!
Ciò premesso, rieccoci alle soglie delle tanto attese feste natalizie cui fanno da sfondo mille tradizioni, una miriade di usanze care, nonché innumerevoli «abusanze» commerciali. Portata in giro nei centri di acquisto sontuosamente addobbati a festa, per la ricordevole foto col babbo natale, la nostra infanzia va sempre più allontanandosi dalla suggestività della grotta di Betlemme; di conseguenza pure l’umanità va sempre più distorcendo il reale e sublime significato della Santa Natività. In ogni modo oggigiorno nelle case di mezzo mondo a farla da padrone, oltre allo sfarzo di ghirlande e luci sui balconi, alle finestre e per le strade, c’è immancabilmente il verde abete a mantenere la tradizione e la caratteristica ricostruzione del presepio a ricordare la nascita del Bambinello in una fredda grotta di Betlemme 2015 anni or sono. E quest’ultimo, senza ombra di dubbio, porta il marchio del made in Italy. Ma da quegli sprazzi di luci che si diramano dall’alberello...non c’è proprio nemmeno un raggio a ricordare la luminosità della nostra terra?
Procedendo con ordine, nel 1223 in una campagna di proprietà di un certo Giovanni Velita, nei pressi di Greccio in provincia di Rieti nel Lazio, San Francesco d’Assisi realizzò per la prima volta una rappresentazione vivente della Natività per ricreare la mistica atmosfera della notte Santa a  Betlemme...ed anche quella notte nacque, miracolosamente, un Bambinello che il santo d’Assisi ebbe la gioia di cullare fra le sue braccia: prendeva il via la cara usanza del presepio! Ma, guarda caso, non si narra pure che la gente del luogo, per illuminare l’oscurità delle tenebre, si recasse sul posto con torce e fiaccole accese?. Ed ora, questo scintillìo di fiammelle nello sfondo degli alberi circostanti non balza pure al vostro sguardo come un raggio di serafica italianità che manda ancora la sua significativa luce pure dagli alberelli natalizi dei nostri giorni?

 Intanto da qualche ramo di quello di casa mia o accanto al presepio, a dispetto del rosso panciuto dalla barba bianca (anch’egli «raggio di italianità» perché Santa Close deriva, neanche a farlo apposta, da San Nicolaus) che distribuendo regali a manca e a dritta sembra beffarsi della «saggia» creduloneria umana, è religiosamente presente ogni anno anche l’arcana calza della vecchia Befana, a ricordare i doni dei saggi magi, nonché…a spazzar via ogni festa. Un altro magico raggio di italianità che l’andazzo dei tempi va progressivamente relegando nella notte dell’oblio o, forse, a intrappolare nella rete di qualche clan di Halloween. Una volta passati a miglior vita noialtri anzianotti, infatti, quanto tempo ancora resterà a irradiare la sua calorosa luce  di dolcezza e bontà la nonnina dei nostri giorni bambini? 

lundi 23 novembre 2015

ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©
(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
SUI PASSI DEL PROGRESSO               
Correvano i tempi in cui la tecnologia computerizzata andava prendendo possesso, a passi sempre più incalzanti, anche di fabbriche e manifatture e di aziende e ditte; insomma, anche dell’intero mondo del lavoro. Di frutta al mercato, infatti, chi prima ne porta prima ne vende.
Fischiettando l’ultimo motivo ascoltato alla radio entrò pure quel mattino in fabbrica, ma non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello che quella sarebbe stata anche l’ultima volta che ne varcava la soglia. Mentre si dirigeva verso la sala mensa per deporvi il cestino della colazione, andava salutando con ampi gesti della mano i vari gruppetti di operai che, qua e là per la manifattura, aspettavano chiacchierando la campana delle otto.
“Ha finito di fare il gradasso! -sussurrò l’addetto alle pulizie ad un compagno di lavoro dopo che Giuseppe si era allontanato- Oggi lo mettono sulla macchina automatica. Staremo a vedere come se la cava il nostro esperto!”. “E tu che ne sai!”, “Cosa vuoi dire con questo?” chiesero alcuni del gruppo sorpresi e incuriositi. “Oggi ve ne accorgerete. -ribatté lo scopino- Non è forse vero che certi intrighi di palazzo, oltre al re, può conoscerli pure lo stalliere?”.
      Si vociferava già da tempo, infatti, di una macchina robot che avrebbe svolto il lavoro di almeno due o tre persone con un rendimento, sia qualitativo che quantitativo, di gran lunga superiore. Il tanto decantato aggeggio computerizzato era arrivato solo da qualche mese ed era già pronto a dare frutti e a ridurre manodopera, a tutto vantaggio e profitto dell’azienda naturalmente.
In quell’ultimo mese lo sfondo unico di ogni ragionamento era stato solo la capacità del nuovo macchinario di produrre molto, bene, con minori spese e poco personale. È appunto in rapporto a quest’ultima nota dolente che è bene ricordare perché Giuseppe era stato soprannominato “il gradasso”. Lavorava lì da più di trent’anni, era uno dei più anziani, si era dedicato sempre con impegno ed efficienza all’espletamento delle sue mansioni; per le sue ottime competenze avrebbe potuto occupare addirittura il posto di caporeparto, ma non gli era mai andato a genio avere delle responsabilità sulle spalle: aveva sempre preferito restare un semplice operaio senza grattacapi per la testa. Adesso che, a causa di quel nuovo macchinario, qualche licenziamento di certo ci sarebbe stato, chi avrebbe potuto toccare proprio lui con all’attivo  quell’ineccepibile curriculum professionale?
      Scoccarono le otto e la campana suonò e ognuno si recò al suo “posto di combattimento” come erano soliti chiamare, forse per alleggerire un tantino la pesantezza della fatica giornaliera, le loro postazioni di lavoro. Anche il nostro fece automaticamente la stessa cosa ma, giunto al suo posto, non vi trovò sessuna “arma da combattimento”. Era lì ad attenderlo, invece, il suo diretto superiore che, dopo il rituale buongiorno gli disse: “E  adesso, signor Giuseppe, vieni con me. Ho una giobba speciale oggi per te!”. Il “gradasso”, intuendo tutto già dall’antifona, cominciò a sudare freddo mentre un brivido gli attraversava tutto il corpo. Come avrebbe fatto a manovrare quel marchingegno della tecnica avanzata? Intanto la sua maggiore preoccupazione era la figuraccia che avrebbe fatto con i suoi compagni di lavoro. Eh sì, il millantare in precedenza le sue virtù professionali non era stato altro che un fare i conti senza dell’oste; allorché lo faceva non poteva mai immaginare che sarebbe stato proprio lui il prescelto alla digitazione di quel nuovo gioiello delle umane invenzioni. Inghiottendo amaro, simulando una certa padronanza di sè, ma internamente teso, si mise a disposizione del givinetto imperbe che gli avrebbe fatto da istruttore fino a quando non sarebbe stato in grado di operare autonomamente. Ascoltava attentamente, eseguiva gli ordini, si affannava a fare del suo meglio, ostentava spigliatezza e sicurezza…ma si vedeva da lontano un miglio che quell’aggeggio tutto pieno di bottoncini e luci era un qualcosa di superiore alle sue pur più che brillanti capacità lavorative: era un nuovo sistema di lavoro che poco si confaceva alle sue vecchie conoscenze di operaio comune. Fingendo di non notare le espressioni ironiche e i sorrisetti sarcastici dei “cattivelli” che avevano bene intuito il suo stato d’animo, riuscì a portare ugualmente a termine quella lunga e sempre più demoralizzante giornata.
      L’indomani, allorché non lo si vide rientrare in fabbrica, solo qualche fidato sapeva che la casetta pagata e un buon gruzzoletto in banca gli avevano suggerito, da ottimi garanti, di tirare avanti in un modo più libero e spensierato, senza padroni e lontano da robot. Intanto nessuno lo aveva messo fuori; era stata una sua, pur se sofferta, libera scelta. La diplomazia aziendale, infatti, affidandogli quel delicato compito non aveva fatto altro che rispettare ogni suo diritto di anzianità e di competenza. Erano state le esigenze innovatrici della scienza a mettere in testa a Giuseppe il pensierino della prepensione.
Era stata l’impellenza della computerizzazione a fargli capire che a un certo punto si deve pure far largo ai giovani. Perciò nessuno gli aveva fatto il torto di metterlo alla porta: era stato l’inesorabile cammino del progresso  di cui nessuno si rende conto che, pur avvantaggiando il domani dell’umanità, a volte purtroppo rovina l’oggi dell’uomo!

dimanche 8 novembre 2015

Gente nostra: numero speciale per una persona speciale
(Quando trovare un amico vuol dire veramente trovare un tesoro!)
Se dicessi sette sere oppure sette note, a chi andrebbe il vostro pensiero? Esatto: a Nino Di Stefano! Ne va da sé che dire Nino Di Stefano è dire sport, significa dire calcio ed anche qualcosa in più. Ma intanto procediamo con ordine. In una manifestazione di tanti anni fa, giovanissimo, presentava uno spettacolo del gruppo folcloristico «Il piccolo coro abruzzese»; fu notato da Enrico Riggi che lo volle in radio con lui nell’allora nascente cfmb; fu così che diede il via alla sua carriera nella stampa parlata curando, in principio, la rubrica «Il piccolo programma»: un appuntamento radiofonico in cui un’altra eccellenza della nostra italianità, il compianto Ermanno Lariccia, ne curava lo sport via telefono; ad Ermanno si avvicendavano prima  Roberto Ferrarini e dopo Paolo Cangiani; dopo di questi era appunto Nino Di Stefano a prendere in mano le redini sportive della nostra emittente locale che diventerà con lui «la radio sportiva di Montreal».  Oggi come oggi qui a Montreal di calcio locale se ne parla tanto ed è molto in auge; prima del glorioso 1982, però, le squadre di calcio e le partite di pallone erano una cosa sporadica ed occasionale; solo i veri appassionati se ne facevano una ragione e prendevano la cosa a cuore. Ed a quei tempi si parlò pure di una Monitalia, una squadra di calcio messa su e portata avanti dal nostro Nino Di Stefano a cui lo sport stava tanto a cuore. Poiché la lingua batte dove il dente duole, poteva non inserire una pagina tutta speciale e tutta sportiva nel suo programma in radio? Ideò la mitica linea aperta del lunedì pomeriggio, nel cui spazio anche i radio-ascoltatori potevano intervenire per esprimere i loro commenti; erano i tempi dell’epico «il giorno dopo», da lui magistralmente condotto ed impreziosito dagli interventi autorevoli di alcuni esperti giornalisti sportivi della Gazzetta dello sport di Torino.
      “E vogliamoci bene!”: risuona ancora oggi all’orecchio, e soprattutto nel cuore, di tanti e tanti ascoltatori che la radio l’hanno vista nascere e crescere a passo sempre più spedito. Su nel tempo era con questo cordiale invito che metteva termine, in tarda serata, alle trasmissioni in lingua italiana della nostra stazione radio amica. Tale saluto era divenuto quasi una istituzione tra noi italiani di Montreal, fu il  fiore all’occhiello del suo saper stare al servizio della comunità sportiva e non, italiana e canadese. Grazie ad un concorso radiofonico, sponsorizzato da non ricordo quale ditta, involontariamente, e quasi in sottofondo, fece scoprire il grande valore della musica leggera italiana e la vera popolarità dei suoi interpreti. Nel corso della rubrica mandava in onda due canzoni interpretate da due cantanti; dopo di che apriva le linee e venivano effettuate tre telefonate mediante le quali gli interpellati dovevano dare la loro preferenza. Ebbene, quando la «partita» finiva due a uno, tutto ok; ma quando si verificava un tre a zero…ti piangeva il cuore per lo sconfitto, fosse o non fosse il tuo cantante preferito; ecco fatto, con quel concorso Nino Di Stefano metteva l’accento sul valore reale della nostra musica leggera: i cantanti sono tutti bravi e le canzoni sono tutte belle! Intanto un luminoso sprazzo di luce paesana ce l’ho lasciò con quelle stupende cartoline «dal tuo paese con amore»; era stato mandato in Italia per stabilire dei contatti virtuali tra la Madre Patria e i suoi figli all’estero. Fece delle registrazioni in alcune regioni d’Italia ed al suo ritorno mandò in onda qui a Montreal i saluti ed i pensieri di affetto che quelli di lì mandavano ai parenti residenti qui: una selezione ben curata delle tante interviste fatte, un ponte virtuale tra Madre Patria e figli all’estero tanto sentito quanto indimenticabile!
      Ci sono, poi, due chicche prettamente culturali da lui curate su nel tempo che mi piacerebbe ricordare: «Davanti allo specchio» e «Polvere di stelle»; nella prima citava pensieri di autori vari e nella seconda quelli specifici di Attilio Piccirilli che, in occasione di un Natale, andò di persona a…far piovere polvere di stelle negli studi radio. Oltre che una voce amica della radio, Nino è stato, a suo tempo, pure un noto volto della nostra televisione locale: ricordate quando conduceva «Sportivi in diretta» con Piero Facchin? E ricordate ancora quando su Tele-Italia commentava lo sport con Franco Mandolini e Pasquale Cifarelli? E ricordate inoltre quel campionato mondiale di calcio 1994 quando, ancora col Cifarelli, ne trasmetteva la finale…che ci lasciò un po’ d’amaro in bocca?  A parte le tante cose qui dette, nel curriculum vitae di Nino Di Stefano va annotata pure la sua attività come agente di viaggi, nonché di manager nella Gold Crest: una distributrice italo-canadese di articoli da cucina in acciaio inossidabile…culla anche di questa nostra bella amicizia!
      Dov’è e cosa fa adesso Nino Di Stefano? Ci siamo ritrovati via fb dopo alcuni anni di lontananza; è stato un piacere per entrambi riprendere la conversazione interrotta e chiederci cosa ne è stato di noi nel frattempo. Sapevo che aveva dovuto lasciare gli studi radio per motivi di salute, ma non sapevo che aveva avuto seri problemi proprio alle corde vocali; problemi  che, grazie alla preziosa guida di esperti in materia e ad adeguati esercici di riabilitazione, fortunatamente è riuscito a ben superare. Anzi, proprio qualche mese fa, in una manifestazione organizzata dall’Associazione Famiglie Abruzzesi lo hanno invitato ad animare la serata; non è stato tanto il fatto di essere stato scelto lui come presentatore ad inorgoglirlo, quanto il fatto di essere stato in grado di poter parlare al microfono proprio come se nulla fosse successo. Per farla breve, Nino adesso sta alquanto bene e, grazie alla sua forza di volontà ed alla sua capacità di riuscire a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno…svolge anche un piccolo lavoretto che lo fa sentire soddisfatto di poter ancora onorare la nostra italiantà; guida un piccolo autobus scolastico con cui porta i bambini a scuola e poi li riaccompagna a casa. Quel camioncino, oltre che ad un mezzo di trasporto, lo ha fatto divenire una scuola ambulante di italiano; a quei piccoli canadesini di varie nazionalità insegna l’alfabeto, impara loro a contare, a conoscere i giorni della settimana, i mesi dell’anno e tante altre cosettine ancora. Per me è stato un piacere sentirlo e per lui è stato un punto di orgoglio sottolinearmi che quei frugoletti, se ad inizio anno scolastico parlano solo inglese e francese, alla fine dell’anno sono capaci di farti anche dei piccoli discorsetti nella nostra lingua…ed anche i genitori, a tal proposito, sono contenti del «conduttore a scuola» dei loro figli. 

      Nino Di Stefano, una vita ancora tutta dedita allo sport, alla nostra comunità  ed alla nostra italianità!  

vendredi 23 octobre 2015

ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©
(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
IL CAFFÈ                         
      Correvano i tempi in cui Giuseppe fu messo come responsabile nel magazzino della fabbrica dove lavorava. Al momento della sua nomina il posto era già vacante da un pezzo e, quando lui ne prese possesso, ebbe come l’impressione di trovarsi in mezzo a un completo sottosopra da capogiro e gli ci vollero parecchi giorni prima di rimetterlo in ordine come si doveva. Ma con un po’ di buona volontà e con una buona dose di pazienza riuscì a sistemare ogni cosa ad arte e mestiere. Fatto questo si prefisse di mettere un certo ordine pure nella testa degli operai perché ce n’era veramente bisogno. Nel lasso di tempo che il magazzino era rimasto senza sorveglianza ognuno si era lasciato andare al più sconsiderato self service, gettandosi alle spalle ogni senso di responsabilità. Chi entrava e chi usciva, un continuo andirivieni per prendere materiale e attrezzi che, tra l’altro, difficilmente vedevano una via di ritorno. Intanto si erano talmente abituati a fare da soli che adesso lui, il magazziniere, si vedeva lì a mo’ di mazza di scopa. Sapete cosa si sentì dire un giorno da un manovale? “Ah si, hanno messo un magazziniere adesso qui?”. Detto tra noi, solo alcuni haitiani si comportavano con senso di civismo e con correttezza. Gli altri, invece, avevano tante di quelle cose da fare che non potevano perdere tempo a chiedere o a farsi servire da lui! Dovevano sbrigarsi, loro, perché ogni attimo perso voleva dire produrre di meno. E come avrebbe fatto la compagnia ad andare avanti senza il loro valido supporto? Come comportarsi allora, stando così le cose? Usare le maniere forti oppure adattarsi all’andazzo di quei signori lì? Né l’uno e né l’altro! Giuseppe fece ricorso ancora una volta a una saggia attesa e a una perseverante pazienza, ben sapendo che “è col tempo e con la paglia che maturano le nespole”. Perciò cominciò a fare un lento, ma continuo, lavaggio di cervello a tutta quella gente; e il sistema funzionò perché, ben presto, quasi tutti cominciarono a rigare dritto come Giuseppe voleva e come il buon senso di collaborazione richiedeva.  
      Abbiamo detto “quasi” tutti; e, in effetti, la perfezione veramente perfetta non esiste. Sono sempre esistite, invece, le pecore zoppe e non poteva essere di certo quella manifattura lì a fare eccezione alla regola. Per farla breve, alcuni “vandali” erano rimasti a invadere il territorio di Giuseppe e a costringerlo a fare bottoni e sangue amaro. Quasi a conferma che “il pesce puzza dalla testa”, alcuni di questi facevano parte proprio dei capoccia. Uno per esempio era Alfredo, il caposquadra cattivo che, per il suo carattere antipatico e altezzoso, si era meritato l’appellativo di “chien sauvage”. Un altro era Alberto, il più anziano della compagnia che, appunto a causa della sua seniorità, si riteneva un padreterno a cui era permesso tutto. Avvantaggiati non tanto dalle loro capacità, quanto dall’autorità loro conferita, erano divenuti i classici esempi del cosiddetto abuso di poteri. E come faceva Giuseppe a contraddirli se quelli avevano completa carta bianca, mentre ognun’altro operaio alla parte patronale appena appena poteva permettersi di dire “buon giorno” quella rara volta che la vedeva aggirarsi per i locali dello stabile?
      Un giovedì pomeriggio il magazziniere si era assentato per portare qualcosa a un assemblatore. Di ritorno al suo posto vide “le chien” uscire dal magazzino dopo essersi servito abusivamente. Allora Giuseppe lo chiamò e garbatamente gli disse: “Scusa Alfredo, ma quando prendi della roba lì dentro dimmelo, altrimenti io perdo il controllo dello stoccaggio!”. Non l’avesse mai detto ché subito l’altro fece il punto della situazione: “Io qui dentro faccio quello che ho sempre fatto e non sei di certo tu la persona che può darmi ordini contrari!”. Nel frattempo stava sopraggiungendo Alberto che, avendo sentito tutto, subito rincarò la dose: “Se tu non sei capace di vedere cosa manca e cosa non manca nel tuo stockerumme, mica è colpa nostra!” e si allontanò facendo una strizzatina d’occhio ad Alf. Quando, l’indomani, Giuseppe fu visto uscire dall’ufficio tutti sospettarono che Alfredo gli avesse “offerto un caffè”, come dicevano loro quando qualcuno veniva fatto rimproverare dall’alta direzione. Comunque l’euforia del fine settimana, quasi giunto, fece passare l’accaduto in second’ordine e il lunedì successivo tutto riprese come di consuetudine. L’unica cosa insolita fu quella di notare, proprio di fronte al magazzino, la finestra del corridoio che porta all’ufficio non illuminata e la porta accanto chiusa. Intanto anche sulla porta del “regno di Giuseppe” si notò un vistoso cartello con sopra scritto: “Vietato entrare senza permesso!”. Erano all’incirca le undici quando Alfredo, supponendo che l’avviso non lo riguardasse, vi entrò per servirsi personalmente come era ormai solito fare. Dopo poco pure Alberto ne seguì l’esempio infischiandosi a sua volta dell’interdizione. Fu in quel preciso istante che la finestra del corridoio si illuminò e la porticina adiacente si aprì. Ne uscì il padrone in persona che, avvicinandosi al “luogo del delitto”, chiamò tutti a raccolta. Senza prediche o ramanzine, venendo subito al dunque ingiunse ad Alfredo e ad Alberto di leggere quanto c’era scritto sul cartellino. E quelli lo fecero, l’uno dopo l’altro, dinanzi a tutti e a voce alta. Dopo di che il padrone sentenziò: “E allora, miei cari amici, cercate di rispettare tutti indistintamente gli ordini che vi si danno!”. Poi, mentre il gruppetto si scioglieva e lui si allontanava, rivolgendosi di nuovo ai trasgressori continuò: “A proposito, invece di offrire troppi caffè ai vostri operai, cercate di dare loro un po’ più di buon’esempio!”.

      E da quel giorno Giuseppe visse felice e contento nel suo reame rimesso in ordine e con tutti i suoi sudditi subordinati e collaborativi. Intanto nessuno seppe mai che il venerdì precedente aveva avuto l’ardire di andare a chiedere e ottenere dal datore di lavoro un colloquio a tu per tu, nel corso del quale gli aveva fatto luce su alcune cose di cui lui…era all’oscuro!     

jeudi 8 octobre 2015

ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©
(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
IL SOGNO PREMONITORE            
      Gli capita spesso di sognare cose che poi trovano riscontro nella realtà dei fatti. Benché si chiama Giuseppe tralasciamo di ravvicinarlo a quello bibblico, anche se gli fa piacere vantarsi e ritenersi onorato di fare sogni premonitori.
      In quell’aria di confusione, che avvolge ogni sogno in un alone di mistero, gli sembrava di avere accompagnato sua moglie a fare delle compere e di essere rimasto in macchina ad aspettarla. Uno sguardo, dato di sfuggita all’orologio, già basta a metterlo in agitazione. Sono quasi le otto e, se quella non si sbriga, rischia di arrivare tardi al lavoro; senza contare che pure lei deve trovarsi in fabbrica per tempo. Pensa e ripensa, aspetta e riaspetta entra nella boutique e sbotta: “Se fra cinque minuti non sei in macchina parto e  ti lascio a piedi!”. La proprietaria del negozio, intanto, con un sorrisetto canzonatorio gli fa capire che prima di un “paio d’ore” la sua signora non uscirà di lì. “Ciao ciao!” esclama allora lui ed eccolo di nuovo in macchina, col piede a tavoletta a causa del ritardo in cui si trova. A un semaforo è obbligato a fermarsi perché quello segnala rosso. Riparte col verde e, come per incanto, eccolo ancora fermo a un passaggio a livello con le sbarre che gli si stanno abbassando dinanzi a causa di un accelerato che avanza a passi di lumaca. Da dove sia sbucato fuori quel treno proprio non lo sa; sa solo che gli si sblocca la strada esattamente “due ore” dopo. Rischiaccia l’acceleratore e comincia a pensare a cosa può dire in fabbrica per giustificare tutto quel suo ritardo. Gli sta venendo in mente una bella scusa quando la sua radio-sveglia, mettendosi in funzione alle sei in punto come programmata, gli fa realizzare che non deve rendere conto a nessuno di nessun ritardo in quanto il suo non era stato altro che una specie di incubo.
      Scuotendo la testa, quasi a voler dissipare la stranezza del sogno, si alza, si prepara e parte come di consuetudine per un’altra giornata di lavoro. Entra in manifattura, saluta a destra e a sinistra e attende che la campana dia inizio anche quel mattino alla giornata lavorativa. Alle dieci, precisamente dopo “due ore” di lavoro, mentre sono fermi per la pausa caffè gli sorge un dubbio: “Ho timbrato oppure no il cartellino stamattina!”. Vattelappesca! E come fa ad accertarsene se ormai in ogni azienda che si rispetti ciascun operaio ha la sua carta magnetica personalizzata? La passi nella fessura dell’orologio computerizzato e solo gli addetti allo scopo possono darti informazioni a riguardo. Aprendo una parentesi, una mattina gli capitò di prendere in mano la carta della banca invece di quella del lavoro. Tra sé e sé pensò che, tutto sommato, avrebbe fatto lo stesso. Stando ai passi da gigante con cui avanza oggigiorno la tecnica va a finire che, uno di questi giorni, alla fine della tua giornata di lavoro timbri il cartellino e ti viene fuori il corrispondente della tua giusta, si fa per dire, mercede di operaio! Chiudendo la parentesi, mentre si accinge ad andare a esporre il suo dubbio al caporeparto, questi precedendolo gli fa: “Ehi tu, mister Joe, perché non hai ponciato la carta stamattina?”. Il tutto, guarda caso,  dopo le famose “due ore” del sogno fatto in sul finir del sonno!     

      Che quello, fortunatamente, fosse stato soltanto un sogno gli fu di grande sollievo anche per una comprensibile ragione concernente la stabilità del suo posto d’impiego. Lì da loro, infatti, certi richiami all’ordine venivano dati tramite lettere ammonitrici di tenore più o meno severo. Ora, se quel ritardo si fosse realmente avverato, a Giuseppe sarebbe costato una seconda lettera di avvertimento, sportivamente parlando un secondo cartellino giallo. Cercate di immaginare voi, adesso, la sua apprensione a riguardo tenendo presente che nella sua ditta una terza lettera di preavviso stava a indicare una quasi certa via di uscita senza alcuna speranza di ritorno. E dove l’avrebbe trovato un altro lavoro alla sua età e in quel clima di recessione economica in cui versava tutta quanta la nostra bella provincia? Poiché tutto è bene quel che finisce bene…tanto meglio così! 

mercredi 23 septembre 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

IL MIRACOLATO    

      È fuori discussione che ne avete sentito parlare pure voi di miracoli. A proposito, cosa ne pensate di questi fatti del tutto soprannaturali? Il miracolo è un qualcosa talmente eccezionale che è ben difficile dargli un giusto valore in tempo reale e nessuno, pertanto, può affermare con estrema sicurezza di averne visto verificarsi qualcuno. D’altro canto di persone miracolate ne esistono eccome e a tutti indistintamente sarà stato additato un Caio o Sempronio come singolare destinatario di un qualche simile portento. A volte magari ci abbiamo creduto; altre volte, invece, siamo rimasti stupiti o confusi, se non addirittura scettici. Comunque di miracoli ne fanno solo i santi e non penso affatto che un santo, dopo averne operato qualcuno, venga a rivendicarne la paternità: mancherebbe di modestia e non avrebbe più tutte le carte in regola per continuare a portare la sua aureola in testa. Nella nostra quotidianità di comuni mortali si presentano di sovente episodi che fanno gridare al miracolo; solo che subito dopo riprendiamo la mormale routine come se nulla fosse accaduto, senza preoccuparci minimamente di dover ringraziare qualche santo o ritenendo proprio di non doverne essere riconoscenti ad alcuno. Il miracolato di questo mio racconto avrei dovuto chiamarlo “Fortunato”, ma non l’ho ritenuto opportuno perché lui né vuole ammettere il miracolo, né tantomeno si ritiene fortunato. “Si vede che non era ancora giunta la mia ora!”, va ripetendo, ancora adesso a distanza di tempo, a chi gli ricorda che quel giorno ebbe la vita salva per miracolo. In ogni modo, bando alle chiacchiere ed eccovi il fatto per filo e per segno. Dopo averlo letto sarete voi a stabilire se fosse stato il caso di alzare gli occhi al cielo o fosse bastato semplicemente dar merito alla dea bendata o pensare scetticamente alla mancata ora del destino.

      La fabbrica in cui prestava servizio Giuseppe, allorché avvenne il fatto, era una di quelle in cui molti macchinari e quasi tutti gli utensili da lavoro venivano alimentati da un sistema funzionante ad aria compressa. Essendo state comprate delle nuove macchine, si dovette procedere al prolungamento dei tubi che conducevano l’aria attraverso i vari settori dello stabilimento. La diramazione dei conduttori d’aria, posta in alto sotto il soffitto, a tratti scendeva giù nei posti voluti in modo da non dar fastidio agli operai mentre lavoravano. Ebbene, un bel mattino arrivarono due meccanici con un carrello montacarichi e si avicinarono al tavolo di Giuseppe in quanto alcune connessioni dovevano essere effettuate esattamente lassù sul suo capo. “Questione di qualche quarto d’ora” lo rassicurarono, precisando che lui avrebbe potuto continuare a lavorare tranquillamente una volta che essi si erano istallati così come la situazione richiedeva. Gli chiesero solo di spostarsi un attimo: il tempo necessario a far montare una gabbia di ferro sostenuta dalle palette anteriori del carrello e dove si trovava l’uomo che avrebbe dovuto fare l’attacco dei tubi. Il montacarichi salì e ognuno riprese la sua normale attività. Erano trascorsi una ventina di minuti e il meccanico in alto doveva essere quasi al termine del suo lavoro. In quel mentre, intanto, un altro operaio si avvicinò a Giuseppe e gli fece: “Sai una cosa? Ti vedo proprio male con quella gabbia di ferro sul capo. Perché non vai a occupare quel tavolo libero laggiù in fondo?”. Il miracolato , uno di quei tipi che sono portati a fare sempre il contrario di quello che gli si dice, quel giorno però non ebbe proprio nulla da ridire  e si spostò placido e tranquillo…semplicemente burlandosi dell’amico che non aveva “troppa fiducia nei congegni della tecnica moderna”.

      Che ci crediate o meno, si era appena allontanato dal suo posto che il manovratore del carrello elevatore azionò il pulsante che avrebbe dovuto far scendere “lentamente” giù le palette con la gabbia di ferro. Cosa mai non funzionò per farla piombare giù in caduta libera e andarsi a schiantare sul tavolo dove il nostro Giuseppe fortunatamente non si trovava più? Il tavolo, legno duro e metallo, lo si vide spacato in due in un baleno; l’uomo nella gabbia aveva avuto la prontezza di riflessi di tenersi attaccato a essa e ne uscì pure lui miracolosamente illeso. E Giuseppe? Osservò con occhi increduli quanto era accaduto e fu guardato da tutti con sguardo tra l’attonito e il perplesso! Per un attimo nessuno battè ciglia né alcuno fu capace di dire una parola. Sconcerto passeggero, però, perché dopo qualche attimo tutto ritornò alla normalità e nessuno parlò mai più né di caso fortuito, né di miracolo. E i santi? A favore fatto se ne tornarono, forse come loro abitudine in simili frangenti, senza ringraziamento alcuno… pazienti e silenziosi in cielo!

mardi 8 septembre 2015


ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©

(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

LA GAVETTA  (Parte seconda)

      Tempo dopo Giuseppe fu raccomandato a un grande industriale italocanadese. Un pezzo grosso che conosceva mezzo mondo e che un posto come si deve glie lo avrebbe trovato di sicuro. Perciò una sera, dietro appuntamento, si recò a casa di questi per un colloquio. E tu me la chiamavi una semplice casa quella lì? Ma quella era una reggia! Seminterrato, salotti e salottini, sale a dritta e camere a manca, accessori vari, giardini, giardinetti e altro ancora…un villino in piena città. La gente si meravigliava e lo squadrava da capo a piedi il fortunato signore che possedeva “tutto quel casacchione”. Ma che bisogno c’era, poi, di stupirsi tanto? Chi ha polvere spara! In fin dei conti era lui che doveva badare alla sua manutenzione e pagarne le tasse. Ma sì, che se la godesse per cent’anni quella casa: ne aveva fatti di favori e piaceri anche agli altri. Ne aveva sistemata di gente appena arrivata dall’Italia, come ora stava appunto facendo con Giuseppe. Entrò, fu ricevuto nello studio e fu posto a un confidenziale interrogatorio onde venire a conoscenza del suo curriculum vitae. E quel signore, che gli avevano descritto come uno dei massimi esponenti della Montreal di allora, si dimostrò abbastanza disponibile a soddisfare come si doveva le esigenze del nostro fresco italo emigrante. Nel bel mezzo della conversazione prese il telefono e cominciò a parlare con qualcuno che doveva essere un suo vecchio amico da lunga data. Discorrendo con quello, in italiano ma a tratti pure in inglese, gli chiese se nel suo ristorante avesse qualcosa per un giovanotto appena arrivato dall’Italia. “Bene, my dear, -fece concludendo- domani te lo porto!”.  Mentre lui riattaccava la cornetta Giuseppe pensò: “Ma se ha un’industria tutta sua, perché non mi prende con lui?”.

La risposta a quel suo interrogativo l’ebbe il giorno dopo allorché l’insigne mecenate, in un lussuoso Cadillac dell’epoca, l’accompagnava dal suo amico ristoratore. “Ieri sera mi hai fatto capire che in Italia hai studiato, vero?” chiese a Giuseppe che rispose: “Si ho studiato da maestro!”. E quegli di rincalzo: “Allora, avendo studiato anche storia, saprai di certo che i più grandi generali sono proprio quelli che hanno avuto la gavetta più dura! Io la mia, per esempio, l’ho inziata qui, nella cucina del padre di questo mio grande amico!”. E nella cucina di quel ristorante ne lavò di piatti e ne sbucciò di patate pure il nostro nuovo…soldato a prendere il rangio dalla sua gavetta! In compenso, però, ebbe l’occasione di contattare gente di differenti culture e ceto sociale. Per quanto riguarda poi l’apprendimento delle lingue locali, tale opportunità si rivelò quasi come una manna piovuta dal cielo. Nel pomeriggio andavano a lavorare lì alcuni studenti con cui potè praticarle e approfondirle maggiormente. Si diede anche il caso che uno di quei giovani, avendolo preso in simpatia, gli suggerisse di recarsi in un certo posto dove richiedevano personale serio e volenteroso. Giuseppe ci andò e ci rimase pure. Infatti per le buone possibilità di guadagno e per le lusinghiere prospettive di avanzamento che gli venivano offerte valeva la pena mettere da parte gli studi fatti e volgere la testa a ideali di tutt’altro genere. D’altronde, se ebbe la forza di volontà di attaccare al chiodo carta, penna e calamaio, si vide pure baciato in fronte dalla fortuna che, facendogli abbandonare scopa, patate, piatti e gavetta, diede modo anche a lui di intraprendere la sua brava vita di carriera, che gli avrebbe dato anche modo si sentirsi più realizzato…in qualità di  caporeparto, alias boss, in una manifattura di trapunte e ricami, che gli permise per parecchi e parecchi annetti di sbarcare il lunario con decente orgoglio.

dimanche 23 août 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

LA GAVETTA   (parte prima)                                 

      Correvano i tempi in cui Giuseppe era appena giunto a Montreal dall’Italia: in sul finir degli anni sessanta. Quella sera che suo cugino Antonio l’invitò a cena a casa sua non aveva ancora trovato un impiego. Dopo aver parlato del più e del meno e del come stavano i parenti laggiù al paese, la conversazione non potè non cadere sull’argomento lavoro. “Perché non lo porti nella tua sciorpa?”, suggerì Antonio alla moglie. “Ma cos’è sta sciorpa?”, chiese Giuseppe nell’udire quella parola. “Oh niente, -rispose Rosaria, la moglie di Antonio- qui le chiamiamo così le fabbriche dove lavoriamo. Ti abituerai anche tu a questa parlata, non preoccuparti!”. E Antonio riprese: “Se ti va, fatti trovare pronto domani mattina alle sette e mezza. Passeremo a prenderti e lei ti farà parlare col suo foremam, cioè con quello che comanda tutti gli operai. È italiano ed è un pezzo di pane!”. E così l’indomani Giuseppe si trovò per la prima volta in una “sciorpa” montrealese a tu per tu con quel famoso lavoro che nobilita l’uomo. Gli bastò aver messo piede lì dentro per sorprendersi a pensare tra sé e sé: “Ma dove mi hanno portato? Ma chi me l’ha fatto fare a venire qui?”. L’assordante rumore di macchine tessili, l’odore untuoso che impregnava tutta l’aria non aiutavano di certo a farlo sentire a suo agio. Il lavoro lì dentro era continuato e in quel momento gli operai stavano effettuando il cambio turno. Quella gente che, alternandosi al posto di guardia, si salutava tutta felice e sorridente doveva trovarsi bene in quella manifattura per essere tanto contenta ed entusiasta. Questo particolare incoraggiò non poco Giuseppe che intanto già stava ricevendo le debite informazioni da quel “pezzo di pane di foreman italiano”, un certo Michele che però chiamavano Mike.  Furono proprio i suoi modi garbati e signorili che lo convinsero a restare: provare non gli costava niente; l’avrebbe presa dopo una decisione definitiva!

      Fu messo assieme a un tessitore esperto che gli avrebbe spiegato tutto ad arte e mestiere. A dire il vero il da farsi non era complicato: richiedeva solo molta attenzione e tanta sveltezza; dovevano tenere sotto controllo una trentina di machine disposte su due file parallele. In quella selva di fili bianchi e in quel saltellare di aghi che tessevano calze a non finire…addio monti se non ti sbrigavi! Non gli fu difficile apprendere e ambientarsi anche perché gli operai avevano tutti un carattere gioviale e spassoso; perciò riuscì a familiarizzare con essi in men che non si dica. Erano per lo più italiani e greci: una faccia una razza, come dicevano loro, ragion per cui fraternizzare era d’obbligo se si voleva alleggerire la pesantezza del lavoro e alleviarne la fatica! E così, pensa e ripensa, fu dell’avviso che quel calzeificio poteva fare al suo caso; anche se quel dover passare la scopa a fine giornata, e lo faceva guardandosi furtivamente intorno per la vergogna, proprio non si confaceva alle sue costumanze ancora all’italiana; ditemi di grazia, dove si era mai vista, in Italia, una persona studiata con la scopa in mano? A parte questo, la prima settimana passò abbastanza in fretta e si giunse così al sabato pomeriggio. Stava già per andarsene quando Mike, avvicinandosi, gli disse: “Complimenti amico. Hai appreso abbastanza in fretta e puoi anche lavorare da solo. Lunedì vieni nel pomeriggio: cominci col turno della sera!”. Preso lì su due piedi si trovò subito a dire di sì senza pensare alle conseguenze di quel suo assenso. Come avrebbe fatto, intanto, a seguire i corsi serali d’inglese se doveva recarsi al suo posto di lavoro? Perciò abbandonando baracca e burattini, il lunedì seguente non si presentò più in fabbrica, senza dare spigazioni a nessuno. “Sei stato uno scemo;  -gli disse la moglie di Antonio quando venne a saperlo- se glie lo dicevi ti avrebbe lasciato di giorno e forse ti avrebbe dato pure l’aumento!”.                                            (continua)

samedi 8 août 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)           

LE COMARI                                  

      “Hai capito la bionda che è arrivata solo qualche settimana fa?”, fece Fulvia all’amica Elvira che  chiese a sua volta: “Quale, quella che ha portato lui?”. “Esatto, proprio lei. Già prende cinque soldi in più di noi!”. “E a te chi l’ha detto? Come fai a saperlo?”. “Giovedì scorso le è caduta la slippa paga per terra e io sono riuscita a vedere quanto prende!”. “E bravo il nordico! –continuò commentando Elvira- Sembra un tedesco con i suoi modi di fare, eppure…”. “Eh no, -l’interruppe Fulvia- tra quei due deve esserci del tenero. Secondo me qui gatta ci cova!”.

      Lui intanto era Volfango, il manager della manifattura di vestiti da uomo dove lavoravano Fulvia ed Elvira, meglio conosciute come “le comari” a causa dei loro continui pettegolezzi. Era originario del nord Europa ed era un tipo rigido e severo, giusto e imparziale, amato e temuto al tempo stesso. Lei invece, la bionda, era una sua compaesana ed era stato proprio lui a portarla a lavorare lì da loro. Serio ed equibrato com’era, intanto, si era concesso il lusso di assumere la bionda a cinque soldi in più delle comari che, avendo scoperto ciò, non si davano pace per la gelosia e minacciavano lo scandalo. Elvira: “Ah no, bisogna tenerli d’occhio i piccioncini!”. E Fulvia: “E poi, mica lavora meglio di noi per prendere di più!”. Poco lontano da loro lavorava Angela, la moglie di Giuseppe che, però, svolgeva tutt’altra attività altrove. Sentendole bussare ripetutamente a denaro pensò: “Meno male che non sanno quanto prendo io, le pettegole. Se sapessero che ho dieci soldi all’ora più di loro, di certo mi metterebbero sul giornale, ammesso che non mi scaglierebbero nella più profonda bolgia dantesca!”.

      Era un giorno d’estate afoso e umido. La bionda di tanto in tanto si ventilava con la blusa per sentirsi più fresca. Mentre faceva un tale gesto si trovò a passare Volfango che le fece un cenno di saluto e una strizzatina d’occhio. Non l’avesse mai fatto! Apriti cielo le nostre comari! “Hai visto? Che ti dicevo?” commentò Fulvia ad alta voce. “Parla più piano. Ti sentono tutti!” l’ammonì Elvira. “E che me ne importa. Devono conoscerla tutti la ragione delle preferenze. Il mio naso ha buon fiuto!”. Fortunatamente Volfango non aveva motivo di aggirarsi spesso nei locali della fabbrica; quelle poche volte che doveva farlo, comunque, subito le comari si mettevano sul chi va là fiduciose di coglierli in flagrante. Un giorno, per esempio, passando nei pressi della sua macchina le abbozzò un gran sorriso che lei ricambiò con un bacio frettoloso mandato sulla punta delle dita. Dio ce ne scanzi e liberi! Adesso sì che era tutto chiaro! Quello sì che confermava la fondatezza dei loro sospetti! Ragion per cui Fulvia presagì: “Voglio proprio vedere cosa succederà al party di Natale. Lì, tra un goccio e l’altro, qualche altarino lo si scoprirà di certo!”. Come ogni evento atteso con ansia, sembrò lungo ad arrivare, ma giunse puntuale il giorno della festicciola natalizia. Qualcuno aveva portato pure un giradischi per movimentare il festino con della bella musica. E infatti si passò un lieto pomeriggio in simpatica armonia e in amichevole compagnia. In tale circostanza, comunque, occhio delle comari puntati sulla preda, si venne a conoscenza di un aspetto tutto nuovo della bionda. Da taciturna e dimessa, quale appariva sul lavoro, diede a capire di essere pure un tipo allegro, spigliato e sbarazzino, ma serio al tempo stesso. In effetti, capovolgendo la situazione, riuscì a scornare le comari in maniera del tutto insolito e brillante.

      Il direttivo e il personale di concetto giunse nell’improvvisata sala party quando ormai quasi tutti si erano già serviti. Appena il manager si avvicinò alla tavola fredda la bionda subito gli si accostò e gli andò suggerendo, via via, le cose più buone da prendere. E vi pare che quelle premurose attenzioni passassero inosservate allo sguardo vigile delle nostre pettegole? “Ma guarda solo che confidenze!”, fece l’una; e l’altra: “Quanto ci scommetti che stasera i piccioncini li vedremo tubare?”. Si mangiò, si bevve e si cominciò a ballare. Echeggiarono le note di un appassionato lento e lei, ondeggiandosi al ritmo di quelle, andò a invitare lui per quel ballo… e ballarono con tanto affiatamento e sintonia da essere la coppia più ammirata; e ballarono con tanta passione e trasporto da trovarsi spesso in un ravvicinato guancia a guancia. Ed eccoti subito Fulvia sbottare: “Mamma mia, hai visto che t’hanno fatto?”.  Ed Elvira non tardò a rincarare la dose: “Non ci vogliono più conferme: se la in-ten-do-no!”. A ballo terminato lui cacciò il cellulare e parlò con qualcuno. Lei, ancora mezza affannata, andò a riempirsi il bicchiere e, passando davanti a tutti quelli che stavano seduti, “cin cin” andava dicendo ad ognuno. Arrivata dalle comari, fingendo di volersi riposare, si sedette in mezzo a loro. Queste si guardarono in faccia stupite e imparazzate, ma non poterono fare a meno di intrattenersi a discorrere con lei. Nel bel mezzo della conversazione eccoti arrivare un distinto signore. La bionda, che bazzicava un poco d’italiano, vedendolo esclamò: “Ecco `rivato marito mio!”. “Tuo marito!” fecero quasi all’unisono Fulvia ed Elvira. “Sì, marito mio quello. Perché non sapere voi io essere sposata?”. Mentre lei diceva così il marito le si avvicinò e le diede un bacio sulla bocca. Dopo di che lei gli consigliò, nella lingua del suo paese, di andare a salutare il fratello. Poi, rivolgendosi di nuovo alle sue denigratrici, riprese in tono canzonatorio: “Bello marito mio, eh? Io dicere suo fratello, nostro manager, chiamare lui qui!”.  E senza ombra di dubbio era davvero un pezzo d’uomo, ancora più simpatico del fratello Volfango. Dovette essere appunto per questo significativo particolare che la sconfitta delle nostre care pettegole risultò di un sapore alquanto più umiliante.              

jeudi 23 juillet 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)           

LA CHIAVE NON APRE PIÙ

      “Statti accorto a quello lí!”, suggerì un giorno Giuseppe a un nuovo arrivato: un giovanotto alle prime esperienze lavorative. E quegli rispose: “Mi ha detto che devo chiedere tutto a lui perché è lui che comanda qui dentro!”. “Lui qui non comanda proprio un bel niente! -precisò Giuseppe- Mette solo il bastone fra le ruote alla gente, lui. È il caporeparto quello che comanda qui!”. A dire il vero, Jean-Claude, il vicecapo francese, era puntato a dito da tutti per il suo fare strafottente e la sua gelosia nei confronti del caporeparto stesso: cullava in cuore il desiderio di fargli le scarpe e di prenderne il posto. Ragion per cui si appigliava ad ogni minima scusa per screditarlo e metterlo in cattiva luce. Ma, a quante macchinazioni immaginabili e possibili avesse fatto ricorso,  non sarebbe mai riuscito nel suo intento perché se quello, il suo capo, aveva quell’incarico era perché ne era all’altezza e di “bossacchiotti” come lui se ne metteva una ventina nella manica! Spiegava il da farsi con calma, lasciava lavorare in tranquillità, dava il tempo di fare le cose, era sempre gentile e garbato con tutti. Jean-Claude, al contrario, era lontano un miglio da quel civismo e da quella classe. Lui la gente la considerava come stracci da piedi, guardava tutti con cipiglio e con fare sospettoso come se ogni cosa fosse sbagliata, ti stava sempre addosso e la giornata, con quel peso sulle spalle, sembrava non passare mai. Guai poi se realmente trovava qualcosa che non andava! “Cosa fai? -ti apostrofava subito ad alta voce- Fermati? Chi ti ha insegnato a lavorare così?”. E andava a riferire al suo “rivale”, quasi per dargli a intendere che anche lui era in grado di dirigere il reparto ad arte e mestiere. E, se non fosse stato per il buon senso e la diplomazia del capo, di battibecchi e litigi ne avrebbe creati a non finire il vice. Con quel passo poco andante si tirò innanzi per parecchio e parecchio tempo. Si vociferò pure che a Claude fossero state fatte svariate lavatine di capo, ma lui o fingeva di essere sordo o veramente ci era. Le lagnanze dei giornalieri, le lamentele dei manovali, la conferma a riguardo delle maestranze fecero sì che l’alta direzione della ditta prendesse quella saggia decisione che, in appresso, si rivelò utile per la tranquillità di ognuno e vantaggiosa per il buon rendimento della fabbrica stessa.

      In quella manifattura i “preposti con la chiave”, cioè i responsabili che avevano un ufficio tutto loro chiuso a chiave, allorché il provvedimento doveva essere preso, venivano messi alla porta in maniera originale e caratteristica, in modo silenzioso ed esplicativo, con fare forse cinico ma esemplare. Un metodo un pò crudele, ma che ben si confaceva, e ben gli stette, al carattere spregevole di Jean-Claude. Ecco la dinamica dell’operazione “sfratto”. Anche quel lunedì mattina allorché entrò si diresse, senza minimamente sospettare che lo faceva per l’ultima volta, verso il suo “gabinetto privato”…come gli operai avevano preso l’abitudine di chiamare il suo studiolo. Gli uffici dei supervisori erano situati lungo un corridoio che fiancheggiava il reparto assemblaggio. Appena il nostro malcapitato l’imboccò per recarsi nel suo uffico, l’ultimo in fondo in fondo al corridoio, subito gli operai corsero ad appostarsi all’angolo per assistere alla sua reazione nel tentativo di aprire la porta. Lo sapevano tutti, tranne lui naturalmente, che la serratura era stata cambiata e che la chiave non l’avrebbe aperta: era quella l’insolita procedura con cui si rendeva noto all’interessato che non era più lui il proprietario di quel locale. Praticamente si cercava, silenziosamente, di dirgli: “Passa per l’ufficio principale, dove ti attende…la liquidazione!”. Giunto davanti alla porta già con la chiave in mano, l’infilò nella toppa, ma naturalmente a vuoto. Fece la prova con una seconda chiave, ma nemmeno quella gli aprì la porta. Tra il sospettoso e l’intuitivo si diede uno sguardo sornione intorno e scorse, con la coda dell’occhio, punte di nasi tirarsi prontamente indietro, laggiù, dallo spigolo del corridoio. Pur avendo già capito tutto, tentò ugualmente ad aprire la porta con una terza chiave, ma con lo stesso risultato dei tentativi precedenti. Infilandosi rabbiosamente il mazzo delle chiavi in tasca, diede un calcio alla porta e si avviò verso la “corte suprema” per la sentenza finale. Nell’assemblaggio, intanto, l’aspettavano i suoi dipendenti in doppia fila indiana. Inchinandosi, l’un dopo l’altro al suo passaggio: “Buon giorno e…addio capo!”, lo andavano salutando con palese sarcasmo. “Maledetti! -esplose lui- Potreste ancora pagarmela: non è stata detta l’ultima parola!”. Per gli operai della fabbrica, comunque, quelle furono le ultime che gli sentirono dire perché nessuno lo vide mai più tornare indietro: il suo numero era già stato assegnato a un altro!

mercredi 8 juillet 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)           

PER MEZZO $ IN PIÙ       

      Correvano i tempi in cui nei cieli del Quebec e di Montreal in particolare spirava aria da grande boom economico. Dopo l’Esposizione Mondiale del 1967 si giungeva alla costruzione dei Padiglioni Olimpici nel 1976. Trovavi lavoro quanto ne volevi, dove volevi e come  volevi. Pure i salari erano abbastanza buoni, solo che “chi più ne ha più ne vuole” e quindi si ha sempre l’impressione di non percepire mai la giusta ricompensa per il lavoro prestato. Visto che in quegli anni non mancavano possibilità di assunzioni e di ingaggio, se non ti piaceva in un posto te ne andavi proprio lì di fronte e facevi dispetto ai tuoi vecchi datori di lavoro che o non apprezzavano il tuo comportamento, o non si accontentavano del tuo rendimento o, peggio ancora, pur lodando le tue ottime doti di operaio, facevano orecchio da mercante in fatto di conquibus. Insomma, incontravi tante di quelle opportunità di lavoro che gli uffici del benessere sociale o quelli di cassa integrazione erano tenuti in piedi dagli sfaticati, dai fannulloni o dai furbacchioni. Poiché a quei tempi, infatti, si era soliti chiudere un occhio sul lavoro sotto banco, non erano in pochi quelli che sfruttavano il governo da una parte e fregavano il prossimo dall’altra.

      Giuseppe era stato assunto da poco in una fabbrica di trapunte e ricami dove per la sua diligenza e per il suo impegno era stato subito preso a ben volere da tutti, senza dire che sembrava proprio tagliato per quel mestiere. Dopo neanche qualche mese, con generale meraviglia, gli era stata affidata una “one inch”: una di quelle macchine maggiormente cariche di aghi posti a distanza appunto di un pollice l’uno dall’altro e che richiedevano attenzione e destrezza. Lusingato da tale inatteso privilegio, cominciò a carezzare l’idea di andare a chiedere un aumento paga. “Tu qui dentro sei ben visto; domandalo direttamente al manager, perché se passi per il caporeparto hai voglia ad aspettare!” gli suggerì un amico più anziano di lui. Ma egli preferì seguire la via gerarchica e si rivolse al suo capo  che entusiasticamente gli promise: “Senza alcun dubbio, amico mio. Oggi stesso vado a parlarne in direzione!”. Intanto si susseguirono due giovedì di paga e dell’aumento non si era ancora vista neanche l’ombra. Un po’ timoroso, un po’ titubante, ritornò dal suo superiore e gli chiese spiegazioni. Questi, dandosi una manata sulla fronte in atto di autorimprovero, esclamò: “Mannaggia, come ho fatto a dimenticarmene? Non preoccuparti, metto la tua richiesta in priorità!”. Ma passata la festa, gabbato lo santo, perché pure sul terzo assegno la paga era rimasta invariata.

      Di cosa si parla, qui in America, quando si incontrano o si va a far visita ad amici o parenti? Di salute e subito dopo di lavoro! Di questo si parlò pure quella sera che Giuseppe e la moglie Angela andarono a trovare una coppia di amici che avevano avuto una bambina. E parlando di lavoro diede sfogo anche al suo disappunto per l’aumento richiesto in fabbrica e mai avuto. A quel punto Tony, così si chiamava l’amico, corrugando la fronte in segno di riflessione e gesticolando con l’indice della mano destra, sentenziò: “Stammi a sentire. Voglio farti una proposta. Se ti va, ti va; altrimenti come non detto!”. “Perché non fai come dice lui, Peppino? -disse Angela dopo aver ascoltato il suggerimento dell’amico- Non ti costa nulla andare a provare!”. In pratica Tony aveva fatto capire di essere, in seno alla compagnia per cui lavorava, uno di quelli che possono fare il bello e il brutto tempo a loro piacimento. Di conseguenza aveva proposto all’amico di fare una capatina, il sabato seguente, nella fabbrica in cui lavorava così gli avrebbe fatto vedere il posto che voleva affidargli qualora gli fosse piaciuto. Giuseppe si convinse, passò di lì il sabato dopo, vide il da farsi e acconsentì. “Allora, facciamo una cosa. -disse Tony- Lunedì mattina vieni qui, provi e mi dai una risposta decisiva!”. “Sì, ma dove sto adesso cosa dico?” domandò Giuseppe. E Tony rispose: “Non preoccuparti, la troveremo una buona scusa!”. E no, non poteva farsela sfuggire quell’opportunità più unica che rara: un posto di caporeparto con mezzo dollaro in più all’ora! E così un po’ invogliato dall’amico, un po’ stimolato dagli ottimi vantaggi, accettò e cambiò padroni.

      E in quell’opificio tessile si trovò bene e vi lavorò per svariati anni. Ma benché la mossa diplomatica dell’amico l’intuì sin dai primi giorni di lavoro, né se ne ebbe a male, né gli diede mai a intendere di averla capita. Infatti quel compito, assai delicato e abbastanza impegnativo, era privo di un addetto già da alcune settimane e tale responsabilità era caduta tutta di peso sulle spalle di Tony che aveva trovato in Giuseppe la sua ancora di salvezza. E c’è di più perchè quel mezzo dollaro in più fatto avere a Giuseppe, forse fruttò pure a lui un qualche apprezzamento dalla parte padronale: il precedente addetto a quell’incarico percepiva ben altri cinquanta soldi in più di quelli accordati al nostro Joe, come avevano cominciato a chiamarlo lì!

      E con i suoi vecchi datori di lavoro come la mise? Quando questi l’interpellarono per sapere il motivo della sua dipartita rispose: “Beh vedete, dove sto adesso già mi danno un dollaro in più di quello che mi davate voi!”…esattamente come gli aveva consigliato il suo mecenate per garantire una sicura chiusura dei conti. E in effetti, dall’altro capo del filo, nell’udire ciò, commentarono: “Un dollaro in più?  Se è veramente  così, ti suggerisco di restarci. Pensavo che avessi cambiato per la sciocchezza di qualche semplice soldo!” . E a parlargli così era stato il padrone in persona  della fabbrica di trapunte e ricami.