dimanche 23 août 2015


ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©

(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

LA GAVETTA   (parte prima)                                 

      Correvano i tempi in cui Giuseppe era appena giunto a Montreal dall’Italia: in sul finir degli anni sessanta. Quella sera che suo cugino Antonio l’invitò a cena a casa sua non aveva ancora trovato un impiego. Dopo aver parlato del più e del meno e del come stavano i parenti laggiù al paese, la conversazione non potè non cadere sull’argomento lavoro. “Perché non lo porti nella tua sciorpa?”, suggerì Antonio alla moglie. “Ma cos’è sta sciorpa?”, chiese Giuseppe nell’udire quella parola. “Oh niente, -rispose Rosaria, la moglie di Antonio- qui le chiamiamo così le fabbriche dove lavoriamo. Ti abituerai anche tu a questa parlata, non preoccuparti!”. E Antonio riprese: “Se ti va, fatti trovare pronto domani mattina alle sette e mezza. Passeremo a prenderti e lei ti farà parlare col suo foremam, cioè con quello che comanda tutti gli operai. È italiano ed è un pezzo di pane!”. E così l’indomani Giuseppe si trovò per la prima volta in una “sciorpa” montrealese a tu per tu con quel famoso lavoro che nobilita l’uomo. Gli bastò aver messo piede lì dentro per sorprendersi a pensare tra sé e sé: “Ma dove mi hanno portato? Ma chi me l’ha fatto fare a venire qui?”. L’assordante rumore di macchine tessili, l’odore untuoso che impregnava tutta l’aria non aiutavano di certo a farlo sentire a suo agio. Il lavoro lì dentro era continuato e in quel momento gli operai stavano effettuando il cambio turno. Quella gente che, alternandosi al posto di guardia, si salutava tutta felice e sorridente doveva trovarsi bene in quella manifattura per essere tanto contenta ed entusiasta. Questo particolare incoraggiò non poco Giuseppe che intanto già stava ricevendo le debite informazioni da quel “pezzo di pane di foreman italiano”, un certo Michele che però chiamavano Mike.  Furono proprio i suoi modi garbati e signorili che lo convinsero a restare: provare non gli costava niente; l’avrebbe presa dopo una decisione definitiva!

      Fu messo assieme a un tessitore esperto che gli avrebbe spiegato tutto ad arte e mestiere. A dire il vero il da farsi non era complicato: richiedeva solo molta attenzione e tanta sveltezza; dovevano tenere sotto controllo una trentina di machine disposte su due file parallele. In quella selva di fili bianchi e in quel saltellare di aghi che tessevano calze a non finire…addio monti se non ti sbrigavi! Non gli fu difficile apprendere e ambientarsi anche perché gli operai avevano tutti un carattere gioviale e spassoso; perciò riuscì a familiarizzare con essi in men che non si dica. Erano per lo più italiani e greci: una faccia una razza, come dicevano loro, ragion per cui fraternizzare era d’obbligo se si voleva alleggerire la pesantezza del lavoro e alleviarne la fatica! E così, pensa e ripensa, fu dell’avviso che quel calzeificio poteva fare al suo caso; anche se quel dover passare la scopa a fine giornata, e lo faceva guardandosi furtivamente intorno per la vergogna, proprio non si confaceva alle sue costumanze ancora all’italiana; ditemi di grazia, dove si era mai vista, in Italia, una persona studiata con la scopa in mano? A parte questo, la prima settimana passò abbastanza in fretta e si giunse così al sabato pomeriggio. Stava già per andarsene quando Mike, avvicinandosi, gli disse: “Complimenti amico. Hai appreso abbastanza in fretta e puoi anche lavorare da solo. Lunedì vieni nel pomeriggio: cominci col turno della sera!”. Preso lì su due piedi si trovò subito a dire di sì senza pensare alle conseguenze di quel suo assenso. Come avrebbe fatto, intanto, a seguire i corsi serali d’inglese se doveva recarsi al suo posto di lavoro? Perciò abbandonando baracca e burattini, il lunedì seguente non si presentò più in fabbrica, senza dare spigazioni a nessuno. “Sei stato uno scemo;  -gli disse la moglie di Antonio quando venne a saperlo- se glie lo dicevi ti avrebbe lasciato di giorno e forse ti avrebbe dato pure l’aumento!”.                                            (continua)

samedi 8 août 2015


ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©

(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)           

LE COMARI                                  

      “Hai capito la bionda che è arrivata solo qualche settimana fa?”, fece Fulvia all’amica Elvira che  chiese a sua volta: “Quale, quella che ha portato lui?”. “Esatto, proprio lei. Già prende cinque soldi in più di noi!”. “E a te chi l’ha detto? Come fai a saperlo?”. “Giovedì scorso le è caduta la slippa paga per terra e io sono riuscita a vedere quanto prende!”. “E bravo il nordico! –continuò commentando Elvira- Sembra un tedesco con i suoi modi di fare, eppure…”. “Eh no, -l’interruppe Fulvia- tra quei due deve esserci del tenero. Secondo me qui gatta ci cova!”.

      Lui intanto era Volfango, il manager della manifattura di vestiti da uomo dove lavoravano Fulvia ed Elvira, meglio conosciute come “le comari” a causa dei loro continui pettegolezzi. Era originario del nord Europa ed era un tipo rigido e severo, giusto e imparziale, amato e temuto al tempo stesso. Lei invece, la bionda, era una sua compaesana ed era stato proprio lui a portarla a lavorare lì da loro. Serio ed equibrato com’era, intanto, si era concesso il lusso di assumere la bionda a cinque soldi in più delle comari che, avendo scoperto ciò, non si davano pace per la gelosia e minacciavano lo scandalo. Elvira: “Ah no, bisogna tenerli d’occhio i piccioncini!”. E Fulvia: “E poi, mica lavora meglio di noi per prendere di più!”. Poco lontano da loro lavorava Angela, la moglie di Giuseppe che, però, svolgeva tutt’altra attività altrove. Sentendole bussare ripetutamente a denaro pensò: “Meno male che non sanno quanto prendo io, le pettegole. Se sapessero che ho dieci soldi all’ora più di loro, di certo mi metterebbero sul giornale, ammesso che non mi scaglierebbero nella più profonda bolgia dantesca!”.

      Era un giorno d’estate afoso e umido. La bionda di tanto in tanto si ventilava con la blusa per sentirsi più fresca. Mentre faceva un tale gesto si trovò a passare Volfango che le fece un cenno di saluto e una strizzatina d’occhio. Non l’avesse mai fatto! Apriti cielo le nostre comari! “Hai visto? Che ti dicevo?” commentò Fulvia ad alta voce. “Parla più piano. Ti sentono tutti!” l’ammonì Elvira. “E che me ne importa. Devono conoscerla tutti la ragione delle preferenze. Il mio naso ha buon fiuto!”. Fortunatamente Volfango non aveva motivo di aggirarsi spesso nei locali della fabbrica; quelle poche volte che doveva farlo, comunque, subito le comari si mettevano sul chi va là fiduciose di coglierli in flagrante. Un giorno, per esempio, passando nei pressi della sua macchina le abbozzò un gran sorriso che lei ricambiò con un bacio frettoloso mandato sulla punta delle dita. Dio ce ne scanzi e liberi! Adesso sì che era tutto chiaro! Quello sì che confermava la fondatezza dei loro sospetti! Ragion per cui Fulvia presagì: “Voglio proprio vedere cosa succederà al party di Natale. Lì, tra un goccio e l’altro, qualche altarino lo si scoprirà di certo!”. Come ogni evento atteso con ansia, sembrò lungo ad arrivare, ma giunse puntuale il giorno della festicciola natalizia. Qualcuno aveva portato pure un giradischi per movimentare il festino con della bella musica. E infatti si passò un lieto pomeriggio in simpatica armonia e in amichevole compagnia. In tale circostanza, comunque, occhio delle comari puntati sulla preda, si venne a conoscenza di un aspetto tutto nuovo della bionda. Da taciturna e dimessa, quale appariva sul lavoro, diede a capire di essere pure un tipo allegro, spigliato e sbarazzino, ma serio al tempo stesso. In effetti, capovolgendo la situazione, riuscì a scornare le comari in maniera del tutto insolito e brillante.

      Il direttivo e il personale di concetto giunse nell’improvvisata sala party quando ormai quasi tutti si erano già serviti. Appena il manager si avvicinò alla tavola fredda la bionda subito gli si accostò e gli andò suggerendo, via via, le cose più buone da prendere. E vi pare che quelle premurose attenzioni passassero inosservate allo sguardo vigile delle nostre pettegole? “Ma guarda solo che confidenze!”, fece l’una; e l’altra: “Quanto ci scommetti che stasera i piccioncini li vedremo tubare?”. Si mangiò, si bevve e si cominciò a ballare. Echeggiarono le note di un appassionato lento e lei, ondeggiandosi al ritmo di quelle, andò a invitare lui per quel ballo… e ballarono con tanto affiatamento e sintonia da essere la coppia più ammirata; e ballarono con tanta passione e trasporto da trovarsi spesso in un ravvicinato guancia a guancia. Ed eccoti subito Fulvia sbottare: “Mamma mia, hai visto che t’hanno fatto?”.  Ed Elvira non tardò a rincarare la dose: “Non ci vogliono più conferme: se la in-ten-do-no!”. A ballo terminato lui cacciò il cellulare e parlò con qualcuno. Lei, ancora mezza affannata, andò a riempirsi il bicchiere e, passando davanti a tutti quelli che stavano seduti, “cin cin” andava dicendo ad ognuno. Arrivata dalle comari, fingendo di volersi riposare, si sedette in mezzo a loro. Queste si guardarono in faccia stupite e imparazzate, ma non poterono fare a meno di intrattenersi a discorrere con lei. Nel bel mezzo della conversazione eccoti arrivare un distinto signore. La bionda, che bazzicava un poco d’italiano, vedendolo esclamò: “Ecco `rivato marito mio!”. “Tuo marito!” fecero quasi all’unisono Fulvia ed Elvira. “Sì, marito mio quello. Perché non sapere voi io essere sposata?”. Mentre lei diceva così il marito le si avvicinò e le diede un bacio sulla bocca. Dopo di che lei gli consigliò, nella lingua del suo paese, di andare a salutare il fratello. Poi, rivolgendosi di nuovo alle sue denigratrici, riprese in tono canzonatorio: “Bello marito mio, eh? Io dicere suo fratello, nostro manager, chiamare lui qui!”.  E senza ombra di dubbio era davvero un pezzo d’uomo, ancora più simpatico del fratello Volfango. Dovette essere appunto per questo significativo particolare che la sconfitta delle nostre care pettegole risultò di un sapore alquanto più umiliante.