vendredi 23 octobre 2015

ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©
(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
IL CAFFÈ                         
      Correvano i tempi in cui Giuseppe fu messo come responsabile nel magazzino della fabbrica dove lavorava. Al momento della sua nomina il posto era già vacante da un pezzo e, quando lui ne prese possesso, ebbe come l’impressione di trovarsi in mezzo a un completo sottosopra da capogiro e gli ci vollero parecchi giorni prima di rimetterlo in ordine come si doveva. Ma con un po’ di buona volontà e con una buona dose di pazienza riuscì a sistemare ogni cosa ad arte e mestiere. Fatto questo si prefisse di mettere un certo ordine pure nella testa degli operai perché ce n’era veramente bisogno. Nel lasso di tempo che il magazzino era rimasto senza sorveglianza ognuno si era lasciato andare al più sconsiderato self service, gettandosi alle spalle ogni senso di responsabilità. Chi entrava e chi usciva, un continuo andirivieni per prendere materiale e attrezzi che, tra l’altro, difficilmente vedevano una via di ritorno. Intanto si erano talmente abituati a fare da soli che adesso lui, il magazziniere, si vedeva lì a mo’ di mazza di scopa. Sapete cosa si sentì dire un giorno da un manovale? “Ah si, hanno messo un magazziniere adesso qui?”. Detto tra noi, solo alcuni haitiani si comportavano con senso di civismo e con correttezza. Gli altri, invece, avevano tante di quelle cose da fare che non potevano perdere tempo a chiedere o a farsi servire da lui! Dovevano sbrigarsi, loro, perché ogni attimo perso voleva dire produrre di meno. E come avrebbe fatto la compagnia ad andare avanti senza il loro valido supporto? Come comportarsi allora, stando così le cose? Usare le maniere forti oppure adattarsi all’andazzo di quei signori lì? Né l’uno e né l’altro! Giuseppe fece ricorso ancora una volta a una saggia attesa e a una perseverante pazienza, ben sapendo che “è col tempo e con la paglia che maturano le nespole”. Perciò cominciò a fare un lento, ma continuo, lavaggio di cervello a tutta quella gente; e il sistema funzionò perché, ben presto, quasi tutti cominciarono a rigare dritto come Giuseppe voleva e come il buon senso di collaborazione richiedeva.  
      Abbiamo detto “quasi” tutti; e, in effetti, la perfezione veramente perfetta non esiste. Sono sempre esistite, invece, le pecore zoppe e non poteva essere di certo quella manifattura lì a fare eccezione alla regola. Per farla breve, alcuni “vandali” erano rimasti a invadere il territorio di Giuseppe e a costringerlo a fare bottoni e sangue amaro. Quasi a conferma che “il pesce puzza dalla testa”, alcuni di questi facevano parte proprio dei capoccia. Uno per esempio era Alfredo, il caposquadra cattivo che, per il suo carattere antipatico e altezzoso, si era meritato l’appellativo di “chien sauvage”. Un altro era Alberto, il più anziano della compagnia che, appunto a causa della sua seniorità, si riteneva un padreterno a cui era permesso tutto. Avvantaggiati non tanto dalle loro capacità, quanto dall’autorità loro conferita, erano divenuti i classici esempi del cosiddetto abuso di poteri. E come faceva Giuseppe a contraddirli se quelli avevano completa carta bianca, mentre ognun’altro operaio alla parte patronale appena appena poteva permettersi di dire “buon giorno” quella rara volta che la vedeva aggirarsi per i locali dello stabile?
      Un giovedì pomeriggio il magazziniere si era assentato per portare qualcosa a un assemblatore. Di ritorno al suo posto vide “le chien” uscire dal magazzino dopo essersi servito abusivamente. Allora Giuseppe lo chiamò e garbatamente gli disse: “Scusa Alfredo, ma quando prendi della roba lì dentro dimmelo, altrimenti io perdo il controllo dello stoccaggio!”. Non l’avesse mai detto ché subito l’altro fece il punto della situazione: “Io qui dentro faccio quello che ho sempre fatto e non sei di certo tu la persona che può darmi ordini contrari!”. Nel frattempo stava sopraggiungendo Alberto che, avendo sentito tutto, subito rincarò la dose: “Se tu non sei capace di vedere cosa manca e cosa non manca nel tuo stockerumme, mica è colpa nostra!” e si allontanò facendo una strizzatina d’occhio ad Alf. Quando, l’indomani, Giuseppe fu visto uscire dall’ufficio tutti sospettarono che Alfredo gli avesse “offerto un caffè”, come dicevano loro quando qualcuno veniva fatto rimproverare dall’alta direzione. Comunque l’euforia del fine settimana, quasi giunto, fece passare l’accaduto in second’ordine e il lunedì successivo tutto riprese come di consuetudine. L’unica cosa insolita fu quella di notare, proprio di fronte al magazzino, la finestra del corridoio che porta all’ufficio non illuminata e la porta accanto chiusa. Intanto anche sulla porta del “regno di Giuseppe” si notò un vistoso cartello con sopra scritto: “Vietato entrare senza permesso!”. Erano all’incirca le undici quando Alfredo, supponendo che l’avviso non lo riguardasse, vi entrò per servirsi personalmente come era ormai solito fare. Dopo poco pure Alberto ne seguì l’esempio infischiandosi a sua volta dell’interdizione. Fu in quel preciso istante che la finestra del corridoio si illuminò e la porticina adiacente si aprì. Ne uscì il padrone in persona che, avvicinandosi al “luogo del delitto”, chiamò tutti a raccolta. Senza prediche o ramanzine, venendo subito al dunque ingiunse ad Alfredo e ad Alberto di leggere quanto c’era scritto sul cartellino. E quelli lo fecero, l’uno dopo l’altro, dinanzi a tutti e a voce alta. Dopo di che il padrone sentenziò: “E allora, miei cari amici, cercate di rispettare tutti indistintamente gli ordini che vi si danno!”. Poi, mentre il gruppetto si scioglieva e lui si allontanava, rivolgendosi di nuovo ai trasgressori continuò: “A proposito, invece di offrire troppi caffè ai vostri operai, cercate di dare loro un po’ più di buon’esempio!”.

      E da quel giorno Giuseppe visse felice e contento nel suo reame rimesso in ordine e con tutti i suoi sudditi subordinati e collaborativi. Intanto nessuno seppe mai che il venerdì precedente aveva avuto l’ardire di andare a chiedere e ottenere dal datore di lavoro un colloquio a tu per tu, nel corso del quale gli aveva fatto luce su alcune cose di cui lui…era all’oscuro!     

jeudi 8 octobre 2015

ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©
(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
IL SOGNO PREMONITORE            
      Gli capita spesso di sognare cose che poi trovano riscontro nella realtà dei fatti. Benché si chiama Giuseppe tralasciamo di ravvicinarlo a quello bibblico, anche se gli fa piacere vantarsi e ritenersi onorato di fare sogni premonitori.
      In quell’aria di confusione, che avvolge ogni sogno in un alone di mistero, gli sembrava di avere accompagnato sua moglie a fare delle compere e di essere rimasto in macchina ad aspettarla. Uno sguardo, dato di sfuggita all’orologio, già basta a metterlo in agitazione. Sono quasi le otto e, se quella non si sbriga, rischia di arrivare tardi al lavoro; senza contare che pure lei deve trovarsi in fabbrica per tempo. Pensa e ripensa, aspetta e riaspetta entra nella boutique e sbotta: “Se fra cinque minuti non sei in macchina parto e  ti lascio a piedi!”. La proprietaria del negozio, intanto, con un sorrisetto canzonatorio gli fa capire che prima di un “paio d’ore” la sua signora non uscirà di lì. “Ciao ciao!” esclama allora lui ed eccolo di nuovo in macchina, col piede a tavoletta a causa del ritardo in cui si trova. A un semaforo è obbligato a fermarsi perché quello segnala rosso. Riparte col verde e, come per incanto, eccolo ancora fermo a un passaggio a livello con le sbarre che gli si stanno abbassando dinanzi a causa di un accelerato che avanza a passi di lumaca. Da dove sia sbucato fuori quel treno proprio non lo sa; sa solo che gli si sblocca la strada esattamente “due ore” dopo. Rischiaccia l’acceleratore e comincia a pensare a cosa può dire in fabbrica per giustificare tutto quel suo ritardo. Gli sta venendo in mente una bella scusa quando la sua radio-sveglia, mettendosi in funzione alle sei in punto come programmata, gli fa realizzare che non deve rendere conto a nessuno di nessun ritardo in quanto il suo non era stato altro che una specie di incubo.
      Scuotendo la testa, quasi a voler dissipare la stranezza del sogno, si alza, si prepara e parte come di consuetudine per un’altra giornata di lavoro. Entra in manifattura, saluta a destra e a sinistra e attende che la campana dia inizio anche quel mattino alla giornata lavorativa. Alle dieci, precisamente dopo “due ore” di lavoro, mentre sono fermi per la pausa caffè gli sorge un dubbio: “Ho timbrato oppure no il cartellino stamattina!”. Vattelappesca! E come fa ad accertarsene se ormai in ogni azienda che si rispetti ciascun operaio ha la sua carta magnetica personalizzata? La passi nella fessura dell’orologio computerizzato e solo gli addetti allo scopo possono darti informazioni a riguardo. Aprendo una parentesi, una mattina gli capitò di prendere in mano la carta della banca invece di quella del lavoro. Tra sé e sé pensò che, tutto sommato, avrebbe fatto lo stesso. Stando ai passi da gigante con cui avanza oggigiorno la tecnica va a finire che, uno di questi giorni, alla fine della tua giornata di lavoro timbri il cartellino e ti viene fuori il corrispondente della tua giusta, si fa per dire, mercede di operaio! Chiudendo la parentesi, mentre si accinge ad andare a esporre il suo dubbio al caporeparto, questi precedendolo gli fa: “Ehi tu, mister Joe, perché non hai ponciato la carta stamattina?”. Il tutto, guarda caso,  dopo le famose “due ore” del sogno fatto in sul finir del sonno!     

      Che quello, fortunatamente, fosse stato soltanto un sogno gli fu di grande sollievo anche per una comprensibile ragione concernente la stabilità del suo posto d’impiego. Lì da loro, infatti, certi richiami all’ordine venivano dati tramite lettere ammonitrici di tenore più o meno severo. Ora, se quel ritardo si fosse realmente avverato, a Giuseppe sarebbe costato una seconda lettera di avvertimento, sportivamente parlando un secondo cartellino giallo. Cercate di immaginare voi, adesso, la sua apprensione a riguardo tenendo presente che nella sua ditta una terza lettera di preavviso stava a indicare una quasi certa via di uscita senza alcuna speranza di ritorno. E dove l’avrebbe trovato un altro lavoro alla sua età e in quel clima di recessione economica in cui versava tutta quanta la nostra bella provincia? Poiché tutto è bene quel che finisce bene…tanto meglio così!