ANCHE QUESTA È AMERICA ©
(I
racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
LA CHIAVE NON APRE PIÙ
“Statti
accorto a quello lí!”, suggerì un giorno Giuseppe a un nuovo arrivato: un
giovanotto alle prime esperienze lavorative. E quegli rispose: “Mi ha detto che
devo chiedere tutto a lui perché è lui che comanda qui dentro!”. “Lui qui non
comanda proprio un bel niente! -precisò Giuseppe- Mette solo il bastone fra le
ruote alla gente, lui. È il caporeparto quello che comanda qui!”. A dire il
vero, Jean-Claude, il vicecapo francese, era puntato a dito da tutti per il suo
fare strafottente e la sua gelosia nei confronti del caporeparto stesso:
cullava in cuore il desiderio di fargli le scarpe e di prenderne il posto.
Ragion per cui si appigliava ad ogni minima scusa per screditarlo e metterlo in
cattiva luce. Ma, a quante macchinazioni immaginabili e possibili avesse fatto
ricorso, non sarebbe mai riuscito nel
suo intento perché se quello, il suo capo, aveva quell’incarico era perché ne
era all’altezza e di “bossacchiotti” come lui se ne metteva una ventina nella
manica! Spiegava il da farsi con calma, lasciava lavorare in tranquillità, dava
il tempo di fare le cose, era sempre gentile e garbato con tutti. Jean-Claude,
al contrario, era lontano un miglio da quel civismo e da quella classe. Lui la
gente la considerava come stracci da piedi, guardava tutti con cipiglio e con
fare sospettoso come se ogni cosa fosse sbagliata, ti stava sempre addosso e la
giornata, con quel peso sulle spalle, sembrava non passare mai. Guai poi se
realmente trovava qualcosa che non andava! “Cosa fai? -ti apostrofava subito ad
alta voce- Fermati? Chi ti ha insegnato a lavorare così?”. E andava a riferire
al suo “rivale”, quasi per dargli a intendere che anche lui era in grado di
dirigere il reparto ad arte e mestiere. E, se non fosse stato per il buon senso
e la diplomazia del capo, di battibecchi e litigi ne avrebbe creati a non
finire il vice. Con quel passo poco andante si tirò innanzi per parecchio e
parecchio tempo. Si vociferò pure che a Claude fossero state fatte svariate
lavatine di capo, ma lui o fingeva di essere sordo o veramente ci era. Le
lagnanze dei giornalieri, le lamentele dei manovali, la conferma a riguardo
delle maestranze fecero sì che l’alta direzione della ditta prendesse quella
saggia decisione che, in appresso, si rivelò utile per la tranquillità di
ognuno e vantaggiosa per il buon rendimento della fabbrica stessa.
In
quella manifattura i “preposti con la chiave”, cioè i responsabili che avevano
un ufficio tutto loro chiuso a chiave, allorché il provvedimento doveva essere
preso, venivano messi alla porta in maniera originale e caratteristica, in modo
silenzioso ed esplicativo, con fare forse cinico ma esemplare. Un metodo un pò
crudele, ma che ben si confaceva, e ben gli stette, al carattere spregevole di
Jean-Claude. Ecco la dinamica dell’operazione “sfratto”. Anche quel lunedì
mattina allorché entrò si diresse, senza minimamente sospettare che lo faceva
per l’ultima volta, verso il suo “gabinetto privato”…come gli operai avevano
preso l’abitudine di chiamare il suo studiolo. Gli uffici dei supervisori erano
situati lungo un corridoio che fiancheggiava il reparto assemblaggio. Appena il nostro malcapitato l’imboccò per recarsi nel suo uffico,
l’ultimo in fondo in fondo al corridoio, subito gli operai corsero ad
appostarsi all’angolo per assistere alla sua reazione nel tentativo di aprire
la porta. Lo sapevano tutti, tranne lui naturalmente, che la
serratura era stata cambiata e che la chiave non l’avrebbe aperta: era quella
l’insolita procedura con cui si rendeva noto all’interessato che non era più
lui il proprietario di quel locale. Praticamente si cercava, silenziosamente,
di dirgli: “Passa per l’ufficio principale, dove ti attende…la liquidazione!”.
Giunto davanti alla porta già con la chiave in mano, l’infilò nella toppa, ma
naturalmente a vuoto. Fece la prova con una seconda chiave, ma nemmeno quella
gli aprì la porta. Tra il sospettoso e l’intuitivo si diede uno sguardo
sornione intorno e scorse, con la coda dell’occhio, punte di nasi tirarsi
prontamente indietro, laggiù, dallo spigolo del corridoio. Pur avendo già
capito tutto, tentò ugualmente ad aprire la porta con una terza chiave, ma con
lo stesso risultato dei tentativi precedenti. Infilandosi rabbiosamente il
mazzo delle chiavi in tasca, diede un calcio alla porta e si avviò verso la
“corte suprema” per la sentenza finale. Nell’assemblaggio, intanto,
l’aspettavano i suoi dipendenti in doppia fila indiana. Inchinandosi, l’un dopo
l’altro al suo passaggio: “Buon giorno e…addio capo!”, lo andavano salutando
con palese sarcasmo. “Maledetti! -esplose lui- Potreste ancora pagarmela: non è
stata detta l’ultima parola!”. Per gli operai della fabbrica, comunque, quelle
furono le ultime che gli sentirono dire perché nessuno lo vide mai più tornare
indietro: il suo numero era già stato assegnato a un altro!