mercredi 23 septembre 2015


ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©

(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

IL MIRACOLATO    

      È fuori discussione che ne avete sentito parlare pure voi di miracoli. A proposito, cosa ne pensate di questi fatti del tutto soprannaturali? Il miracolo è un qualcosa talmente eccezionale che è ben difficile dargli un giusto valore in tempo reale e nessuno, pertanto, può affermare con estrema sicurezza di averne visto verificarsi qualcuno. D’altro canto di persone miracolate ne esistono eccome e a tutti indistintamente sarà stato additato un Caio o Sempronio come singolare destinatario di un qualche simile portento. A volte magari ci abbiamo creduto; altre volte, invece, siamo rimasti stupiti o confusi, se non addirittura scettici. Comunque di miracoli ne fanno solo i santi e non penso affatto che un santo, dopo averne operato qualcuno, venga a rivendicarne la paternità: mancherebbe di modestia e non avrebbe più tutte le carte in regola per continuare a portare la sua aureola in testa. Nella nostra quotidianità di comuni mortali si presentano di sovente episodi che fanno gridare al miracolo; solo che subito dopo riprendiamo la mormale routine come se nulla fosse accaduto, senza preoccuparci minimamente di dover ringraziare qualche santo o ritenendo proprio di non doverne essere riconoscenti ad alcuno. Il miracolato di questo mio racconto avrei dovuto chiamarlo “Fortunato”, ma non l’ho ritenuto opportuno perché lui né vuole ammettere il miracolo, né tantomeno si ritiene fortunato. “Si vede che non era ancora giunta la mia ora!”, va ripetendo, ancora adesso a distanza di tempo, a chi gli ricorda che quel giorno ebbe la vita salva per miracolo. In ogni modo, bando alle chiacchiere ed eccovi il fatto per filo e per segno. Dopo averlo letto sarete voi a stabilire se fosse stato il caso di alzare gli occhi al cielo o fosse bastato semplicemente dar merito alla dea bendata o pensare scetticamente alla mancata ora del destino.

      La fabbrica in cui prestava servizio Giuseppe, allorché avvenne il fatto, era una di quelle in cui molti macchinari e quasi tutti gli utensili da lavoro venivano alimentati da un sistema funzionante ad aria compressa. Essendo state comprate delle nuove macchine, si dovette procedere al prolungamento dei tubi che conducevano l’aria attraverso i vari settori dello stabilimento. La diramazione dei conduttori d’aria, posta in alto sotto il soffitto, a tratti scendeva giù nei posti voluti in modo da non dar fastidio agli operai mentre lavoravano. Ebbene, un bel mattino arrivarono due meccanici con un carrello montacarichi e si avicinarono al tavolo di Giuseppe in quanto alcune connessioni dovevano essere effettuate esattamente lassù sul suo capo. “Questione di qualche quarto d’ora” lo rassicurarono, precisando che lui avrebbe potuto continuare a lavorare tranquillamente una volta che essi si erano istallati così come la situazione richiedeva. Gli chiesero solo di spostarsi un attimo: il tempo necessario a far montare una gabbia di ferro sostenuta dalle palette anteriori del carrello e dove si trovava l’uomo che avrebbe dovuto fare l’attacco dei tubi. Il montacarichi salì e ognuno riprese la sua normale attività. Erano trascorsi una ventina di minuti e il meccanico in alto doveva essere quasi al termine del suo lavoro. In quel mentre, intanto, un altro operaio si avvicinò a Giuseppe e gli fece: “Sai una cosa? Ti vedo proprio male con quella gabbia di ferro sul capo. Perché non vai a occupare quel tavolo libero laggiù in fondo?”. Il miracolato , uno di quei tipi che sono portati a fare sempre il contrario di quello che gli si dice, quel giorno però non ebbe proprio nulla da ridire  e si spostò placido e tranquillo…semplicemente burlandosi dell’amico che non aveva “troppa fiducia nei congegni della tecnica moderna”.

      Che ci crediate o meno, si era appena allontanato dal suo posto che il manovratore del carrello elevatore azionò il pulsante che avrebbe dovuto far scendere “lentamente” giù le palette con la gabbia di ferro. Cosa mai non funzionò per farla piombare giù in caduta libera e andarsi a schiantare sul tavolo dove il nostro Giuseppe fortunatamente non si trovava più? Il tavolo, legno duro e metallo, lo si vide spacato in due in un baleno; l’uomo nella gabbia aveva avuto la prontezza di riflessi di tenersi attaccato a essa e ne uscì pure lui miracolosamente illeso. E Giuseppe? Osservò con occhi increduli quanto era accaduto e fu guardato da tutti con sguardo tra l’attonito e il perplesso! Per un attimo nessuno battè ciglia né alcuno fu capace di dire una parola. Sconcerto passeggero, però, perché dopo qualche attimo tutto ritornò alla normalità e nessuno parlò mai più né di caso fortuito, né di miracolo. E i santi? A favore fatto se ne tornarono, forse come loro abitudine in simili frangenti, senza ringraziamento alcuno… pazienti e silenziosi in cielo!

mardi 8 septembre 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

LA GAVETTA  (Parte seconda)

      Tempo dopo Giuseppe fu raccomandato a un grande industriale italocanadese. Un pezzo grosso che conosceva mezzo mondo e che un posto come si deve glie lo avrebbe trovato di sicuro. Perciò una sera, dietro appuntamento, si recò a casa di questi per un colloquio. E tu me la chiamavi una semplice casa quella lì? Ma quella era una reggia! Seminterrato, salotti e salottini, sale a dritta e camere a manca, accessori vari, giardini, giardinetti e altro ancora…un villino in piena città. La gente si meravigliava e lo squadrava da capo a piedi il fortunato signore che possedeva “tutto quel casacchione”. Ma che bisogno c’era, poi, di stupirsi tanto? Chi ha polvere spara! In fin dei conti era lui che doveva badare alla sua manutenzione e pagarne le tasse. Ma sì, che se la godesse per cent’anni quella casa: ne aveva fatti di favori e piaceri anche agli altri. Ne aveva sistemata di gente appena arrivata dall’Italia, come ora stava appunto facendo con Giuseppe. Entrò, fu ricevuto nello studio e fu posto a un confidenziale interrogatorio onde venire a conoscenza del suo curriculum vitae. E quel signore, che gli avevano descritto come uno dei massimi esponenti della Montreal di allora, si dimostrò abbastanza disponibile a soddisfare come si doveva le esigenze del nostro fresco italo emigrante. Nel bel mezzo della conversazione prese il telefono e cominciò a parlare con qualcuno che doveva essere un suo vecchio amico da lunga data. Discorrendo con quello, in italiano ma a tratti pure in inglese, gli chiese se nel suo ristorante avesse qualcosa per un giovanotto appena arrivato dall’Italia. “Bene, my dear, -fece concludendo- domani te lo porto!”.  Mentre lui riattaccava la cornetta Giuseppe pensò: “Ma se ha un’industria tutta sua, perché non mi prende con lui?”.

La risposta a quel suo interrogativo l’ebbe il giorno dopo allorché l’insigne mecenate, in un lussuoso Cadillac dell’epoca, l’accompagnava dal suo amico ristoratore. “Ieri sera mi hai fatto capire che in Italia hai studiato, vero?” chiese a Giuseppe che rispose: “Si ho studiato da maestro!”. E quegli di rincalzo: “Allora, avendo studiato anche storia, saprai di certo che i più grandi generali sono proprio quelli che hanno avuto la gavetta più dura! Io la mia, per esempio, l’ho inziata qui, nella cucina del padre di questo mio grande amico!”. E nella cucina di quel ristorante ne lavò di piatti e ne sbucciò di patate pure il nostro nuovo…soldato a prendere il rangio dalla sua gavetta! In compenso, però, ebbe l’occasione di contattare gente di differenti culture e ceto sociale. Per quanto riguarda poi l’apprendimento delle lingue locali, tale opportunità si rivelò quasi come una manna piovuta dal cielo. Nel pomeriggio andavano a lavorare lì alcuni studenti con cui potè praticarle e approfondirle maggiormente. Si diede anche il caso che uno di quei giovani, avendolo preso in simpatia, gli suggerisse di recarsi in un certo posto dove richiedevano personale serio e volenteroso. Giuseppe ci andò e ci rimase pure. Infatti per le buone possibilità di guadagno e per le lusinghiere prospettive di avanzamento che gli venivano offerte valeva la pena mettere da parte gli studi fatti e volgere la testa a ideali di tutt’altro genere. D’altronde, se ebbe la forza di volontà di attaccare al chiodo carta, penna e calamaio, si vide pure baciato in fronte dalla fortuna che, facendogli abbandonare scopa, patate, piatti e gavetta, diede modo anche a lui di intraprendere la sua brava vita di carriera, che gli avrebbe dato anche modo si sentirsi più realizzato…in qualità di  caporeparto, alias boss, in una manifattura di trapunte e ricami, che gli permise per parecchi e parecchi annetti di sbarcare il lunario con decente orgoglio.