mercredi 23 septembre 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

IL MIRACOLATO    

      È fuori discussione che ne avete sentito parlare pure voi di miracoli. A proposito, cosa ne pensate di questi fatti del tutto soprannaturali? Il miracolo è un qualcosa talmente eccezionale che è ben difficile dargli un giusto valore in tempo reale e nessuno, pertanto, può affermare con estrema sicurezza di averne visto verificarsi qualcuno. D’altro canto di persone miracolate ne esistono eccome e a tutti indistintamente sarà stato additato un Caio o Sempronio come singolare destinatario di un qualche simile portento. A volte magari ci abbiamo creduto; altre volte, invece, siamo rimasti stupiti o confusi, se non addirittura scettici. Comunque di miracoli ne fanno solo i santi e non penso affatto che un santo, dopo averne operato qualcuno, venga a rivendicarne la paternità: mancherebbe di modestia e non avrebbe più tutte le carte in regola per continuare a portare la sua aureola in testa. Nella nostra quotidianità di comuni mortali si presentano di sovente episodi che fanno gridare al miracolo; solo che subito dopo riprendiamo la mormale routine come se nulla fosse accaduto, senza preoccuparci minimamente di dover ringraziare qualche santo o ritenendo proprio di non doverne essere riconoscenti ad alcuno. Il miracolato di questo mio racconto avrei dovuto chiamarlo “Fortunato”, ma non l’ho ritenuto opportuno perché lui né vuole ammettere il miracolo, né tantomeno si ritiene fortunato. “Si vede che non era ancora giunta la mia ora!”, va ripetendo, ancora adesso a distanza di tempo, a chi gli ricorda che quel giorno ebbe la vita salva per miracolo. In ogni modo, bando alle chiacchiere ed eccovi il fatto per filo e per segno. Dopo averlo letto sarete voi a stabilire se fosse stato il caso di alzare gli occhi al cielo o fosse bastato semplicemente dar merito alla dea bendata o pensare scetticamente alla mancata ora del destino.

      La fabbrica in cui prestava servizio Giuseppe, allorché avvenne il fatto, era una di quelle in cui molti macchinari e quasi tutti gli utensili da lavoro venivano alimentati da un sistema funzionante ad aria compressa. Essendo state comprate delle nuove macchine, si dovette procedere al prolungamento dei tubi che conducevano l’aria attraverso i vari settori dello stabilimento. La diramazione dei conduttori d’aria, posta in alto sotto il soffitto, a tratti scendeva giù nei posti voluti in modo da non dar fastidio agli operai mentre lavoravano. Ebbene, un bel mattino arrivarono due meccanici con un carrello montacarichi e si avicinarono al tavolo di Giuseppe in quanto alcune connessioni dovevano essere effettuate esattamente lassù sul suo capo. “Questione di qualche quarto d’ora” lo rassicurarono, precisando che lui avrebbe potuto continuare a lavorare tranquillamente una volta che essi si erano istallati così come la situazione richiedeva. Gli chiesero solo di spostarsi un attimo: il tempo necessario a far montare una gabbia di ferro sostenuta dalle palette anteriori del carrello e dove si trovava l’uomo che avrebbe dovuto fare l’attacco dei tubi. Il montacarichi salì e ognuno riprese la sua normale attività. Erano trascorsi una ventina di minuti e il meccanico in alto doveva essere quasi al termine del suo lavoro. In quel mentre, intanto, un altro operaio si avvicinò a Giuseppe e gli fece: “Sai una cosa? Ti vedo proprio male con quella gabbia di ferro sul capo. Perché non vai a occupare quel tavolo libero laggiù in fondo?”. Il miracolato , uno di quei tipi che sono portati a fare sempre il contrario di quello che gli si dice, quel giorno però non ebbe proprio nulla da ridire  e si spostò placido e tranquillo…semplicemente burlandosi dell’amico che non aveva “troppa fiducia nei congegni della tecnica moderna”.

      Che ci crediate o meno, si era appena allontanato dal suo posto che il manovratore del carrello elevatore azionò il pulsante che avrebbe dovuto far scendere “lentamente” giù le palette con la gabbia di ferro. Cosa mai non funzionò per farla piombare giù in caduta libera e andarsi a schiantare sul tavolo dove il nostro Giuseppe fortunatamente non si trovava più? Il tavolo, legno duro e metallo, lo si vide spacato in due in un baleno; l’uomo nella gabbia aveva avuto la prontezza di riflessi di tenersi attaccato a essa e ne uscì pure lui miracolosamente illeso. E Giuseppe? Osservò con occhi increduli quanto era accaduto e fu guardato da tutti con sguardo tra l’attonito e il perplesso! Per un attimo nessuno battè ciglia né alcuno fu capace di dire una parola. Sconcerto passeggero, però, perché dopo qualche attimo tutto ritornò alla normalità e nessuno parlò mai più né di caso fortuito, né di miracolo. E i santi? A favore fatto se ne tornarono, forse come loro abitudine in simili frangenti, senza ringraziamento alcuno… pazienti e silenziosi in cielo!

mardi 8 septembre 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

LA GAVETTA  (Parte seconda)

      Tempo dopo Giuseppe fu raccomandato a un grande industriale italocanadese. Un pezzo grosso che conosceva mezzo mondo e che un posto come si deve glie lo avrebbe trovato di sicuro. Perciò una sera, dietro appuntamento, si recò a casa di questi per un colloquio. E tu me la chiamavi una semplice casa quella lì? Ma quella era una reggia! Seminterrato, salotti e salottini, sale a dritta e camere a manca, accessori vari, giardini, giardinetti e altro ancora…un villino in piena città. La gente si meravigliava e lo squadrava da capo a piedi il fortunato signore che possedeva “tutto quel casacchione”. Ma che bisogno c’era, poi, di stupirsi tanto? Chi ha polvere spara! In fin dei conti era lui che doveva badare alla sua manutenzione e pagarne le tasse. Ma sì, che se la godesse per cent’anni quella casa: ne aveva fatti di favori e piaceri anche agli altri. Ne aveva sistemata di gente appena arrivata dall’Italia, come ora stava appunto facendo con Giuseppe. Entrò, fu ricevuto nello studio e fu posto a un confidenziale interrogatorio onde venire a conoscenza del suo curriculum vitae. E quel signore, che gli avevano descritto come uno dei massimi esponenti della Montreal di allora, si dimostrò abbastanza disponibile a soddisfare come si doveva le esigenze del nostro fresco italo emigrante. Nel bel mezzo della conversazione prese il telefono e cominciò a parlare con qualcuno che doveva essere un suo vecchio amico da lunga data. Discorrendo con quello, in italiano ma a tratti pure in inglese, gli chiese se nel suo ristorante avesse qualcosa per un giovanotto appena arrivato dall’Italia. “Bene, my dear, -fece concludendo- domani te lo porto!”.  Mentre lui riattaccava la cornetta Giuseppe pensò: “Ma se ha un’industria tutta sua, perché non mi prende con lui?”.

La risposta a quel suo interrogativo l’ebbe il giorno dopo allorché l’insigne mecenate, in un lussuoso Cadillac dell’epoca, l’accompagnava dal suo amico ristoratore. “Ieri sera mi hai fatto capire che in Italia hai studiato, vero?” chiese a Giuseppe che rispose: “Si ho studiato da maestro!”. E quegli di rincalzo: “Allora, avendo studiato anche storia, saprai di certo che i più grandi generali sono proprio quelli che hanno avuto la gavetta più dura! Io la mia, per esempio, l’ho inziata qui, nella cucina del padre di questo mio grande amico!”. E nella cucina di quel ristorante ne lavò di piatti e ne sbucciò di patate pure il nostro nuovo…soldato a prendere il rangio dalla sua gavetta! In compenso, però, ebbe l’occasione di contattare gente di differenti culture e ceto sociale. Per quanto riguarda poi l’apprendimento delle lingue locali, tale opportunità si rivelò quasi come una manna piovuta dal cielo. Nel pomeriggio andavano a lavorare lì alcuni studenti con cui potè praticarle e approfondirle maggiormente. Si diede anche il caso che uno di quei giovani, avendolo preso in simpatia, gli suggerisse di recarsi in un certo posto dove richiedevano personale serio e volenteroso. Giuseppe ci andò e ci rimase pure. Infatti per le buone possibilità di guadagno e per le lusinghiere prospettive di avanzamento che gli venivano offerte valeva la pena mettere da parte gli studi fatti e volgere la testa a ideali di tutt’altro genere. D’altronde, se ebbe la forza di volontà di attaccare al chiodo carta, penna e calamaio, si vide pure baciato in fronte dalla fortuna che, facendogli abbandonare scopa, patate, piatti e gavetta, diede modo anche a lui di intraprendere la sua brava vita di carriera, che gli avrebbe dato anche modo si sentirsi più realizzato…in qualità di  caporeparto, alias boss, in una manifattura di trapunte e ricami, che gli permise per parecchi e parecchi annetti di sbarcare il lunario con decente orgoglio.

dimanche 23 août 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

LA GAVETTA   (parte prima)                                 

      Correvano i tempi in cui Giuseppe era appena giunto a Montreal dall’Italia: in sul finir degli anni sessanta. Quella sera che suo cugino Antonio l’invitò a cena a casa sua non aveva ancora trovato un impiego. Dopo aver parlato del più e del meno e del come stavano i parenti laggiù al paese, la conversazione non potè non cadere sull’argomento lavoro. “Perché non lo porti nella tua sciorpa?”, suggerì Antonio alla moglie. “Ma cos’è sta sciorpa?”, chiese Giuseppe nell’udire quella parola. “Oh niente, -rispose Rosaria, la moglie di Antonio- qui le chiamiamo così le fabbriche dove lavoriamo. Ti abituerai anche tu a questa parlata, non preoccuparti!”. E Antonio riprese: “Se ti va, fatti trovare pronto domani mattina alle sette e mezza. Passeremo a prenderti e lei ti farà parlare col suo foremam, cioè con quello che comanda tutti gli operai. È italiano ed è un pezzo di pane!”. E così l’indomani Giuseppe si trovò per la prima volta in una “sciorpa” montrealese a tu per tu con quel famoso lavoro che nobilita l’uomo. Gli bastò aver messo piede lì dentro per sorprendersi a pensare tra sé e sé: “Ma dove mi hanno portato? Ma chi me l’ha fatto fare a venire qui?”. L’assordante rumore di macchine tessili, l’odore untuoso che impregnava tutta l’aria non aiutavano di certo a farlo sentire a suo agio. Il lavoro lì dentro era continuato e in quel momento gli operai stavano effettuando il cambio turno. Quella gente che, alternandosi al posto di guardia, si salutava tutta felice e sorridente doveva trovarsi bene in quella manifattura per essere tanto contenta ed entusiasta. Questo particolare incoraggiò non poco Giuseppe che intanto già stava ricevendo le debite informazioni da quel “pezzo di pane di foreman italiano”, un certo Michele che però chiamavano Mike.  Furono proprio i suoi modi garbati e signorili che lo convinsero a restare: provare non gli costava niente; l’avrebbe presa dopo una decisione definitiva!

      Fu messo assieme a un tessitore esperto che gli avrebbe spiegato tutto ad arte e mestiere. A dire il vero il da farsi non era complicato: richiedeva solo molta attenzione e tanta sveltezza; dovevano tenere sotto controllo una trentina di machine disposte su due file parallele. In quella selva di fili bianchi e in quel saltellare di aghi che tessevano calze a non finire…addio monti se non ti sbrigavi! Non gli fu difficile apprendere e ambientarsi anche perché gli operai avevano tutti un carattere gioviale e spassoso; perciò riuscì a familiarizzare con essi in men che non si dica. Erano per lo più italiani e greci: una faccia una razza, come dicevano loro, ragion per cui fraternizzare era d’obbligo se si voleva alleggerire la pesantezza del lavoro e alleviarne la fatica! E così, pensa e ripensa, fu dell’avviso che quel calzeificio poteva fare al suo caso; anche se quel dover passare la scopa a fine giornata, e lo faceva guardandosi furtivamente intorno per la vergogna, proprio non si confaceva alle sue costumanze ancora all’italiana; ditemi di grazia, dove si era mai vista, in Italia, una persona studiata con la scopa in mano? A parte questo, la prima settimana passò abbastanza in fretta e si giunse così al sabato pomeriggio. Stava già per andarsene quando Mike, avvicinandosi, gli disse: “Complimenti amico. Hai appreso abbastanza in fretta e puoi anche lavorare da solo. Lunedì vieni nel pomeriggio: cominci col turno della sera!”. Preso lì su due piedi si trovò subito a dire di sì senza pensare alle conseguenze di quel suo assenso. Come avrebbe fatto, intanto, a seguire i corsi serali d’inglese se doveva recarsi al suo posto di lavoro? Perciò abbandonando baracca e burattini, il lunedì seguente non si presentò più in fabbrica, senza dare spigazioni a nessuno. “Sei stato uno scemo;  -gli disse la moglie di Antonio quando venne a saperlo- se glie lo dicevi ti avrebbe lasciato di giorno e forse ti avrebbe dato pure l’aumento!”.                                            (continua)

samedi 8 août 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)           

LE COMARI                                  

      “Hai capito la bionda che è arrivata solo qualche settimana fa?”, fece Fulvia all’amica Elvira che  chiese a sua volta: “Quale, quella che ha portato lui?”. “Esatto, proprio lei. Già prende cinque soldi in più di noi!”. “E a te chi l’ha detto? Come fai a saperlo?”. “Giovedì scorso le è caduta la slippa paga per terra e io sono riuscita a vedere quanto prende!”. “E bravo il nordico! –continuò commentando Elvira- Sembra un tedesco con i suoi modi di fare, eppure…”. “Eh no, -l’interruppe Fulvia- tra quei due deve esserci del tenero. Secondo me qui gatta ci cova!”.

      Lui intanto era Volfango, il manager della manifattura di vestiti da uomo dove lavoravano Fulvia ed Elvira, meglio conosciute come “le comari” a causa dei loro continui pettegolezzi. Era originario del nord Europa ed era un tipo rigido e severo, giusto e imparziale, amato e temuto al tempo stesso. Lei invece, la bionda, era una sua compaesana ed era stato proprio lui a portarla a lavorare lì da loro. Serio ed equibrato com’era, intanto, si era concesso il lusso di assumere la bionda a cinque soldi in più delle comari che, avendo scoperto ciò, non si davano pace per la gelosia e minacciavano lo scandalo. Elvira: “Ah no, bisogna tenerli d’occhio i piccioncini!”. E Fulvia: “E poi, mica lavora meglio di noi per prendere di più!”. Poco lontano da loro lavorava Angela, la moglie di Giuseppe che, però, svolgeva tutt’altra attività altrove. Sentendole bussare ripetutamente a denaro pensò: “Meno male che non sanno quanto prendo io, le pettegole. Se sapessero che ho dieci soldi all’ora più di loro, di certo mi metterebbero sul giornale, ammesso che non mi scaglierebbero nella più profonda bolgia dantesca!”.

      Era un giorno d’estate afoso e umido. La bionda di tanto in tanto si ventilava con la blusa per sentirsi più fresca. Mentre faceva un tale gesto si trovò a passare Volfango che le fece un cenno di saluto e una strizzatina d’occhio. Non l’avesse mai fatto! Apriti cielo le nostre comari! “Hai visto? Che ti dicevo?” commentò Fulvia ad alta voce. “Parla più piano. Ti sentono tutti!” l’ammonì Elvira. “E che me ne importa. Devono conoscerla tutti la ragione delle preferenze. Il mio naso ha buon fiuto!”. Fortunatamente Volfango non aveva motivo di aggirarsi spesso nei locali della fabbrica; quelle poche volte che doveva farlo, comunque, subito le comari si mettevano sul chi va là fiduciose di coglierli in flagrante. Un giorno, per esempio, passando nei pressi della sua macchina le abbozzò un gran sorriso che lei ricambiò con un bacio frettoloso mandato sulla punta delle dita. Dio ce ne scanzi e liberi! Adesso sì che era tutto chiaro! Quello sì che confermava la fondatezza dei loro sospetti! Ragion per cui Fulvia presagì: “Voglio proprio vedere cosa succederà al party di Natale. Lì, tra un goccio e l’altro, qualche altarino lo si scoprirà di certo!”. Come ogni evento atteso con ansia, sembrò lungo ad arrivare, ma giunse puntuale il giorno della festicciola natalizia. Qualcuno aveva portato pure un giradischi per movimentare il festino con della bella musica. E infatti si passò un lieto pomeriggio in simpatica armonia e in amichevole compagnia. In tale circostanza, comunque, occhio delle comari puntati sulla preda, si venne a conoscenza di un aspetto tutto nuovo della bionda. Da taciturna e dimessa, quale appariva sul lavoro, diede a capire di essere pure un tipo allegro, spigliato e sbarazzino, ma serio al tempo stesso. In effetti, capovolgendo la situazione, riuscì a scornare le comari in maniera del tutto insolito e brillante.

      Il direttivo e il personale di concetto giunse nell’improvvisata sala party quando ormai quasi tutti si erano già serviti. Appena il manager si avvicinò alla tavola fredda la bionda subito gli si accostò e gli andò suggerendo, via via, le cose più buone da prendere. E vi pare che quelle premurose attenzioni passassero inosservate allo sguardo vigile delle nostre pettegole? “Ma guarda solo che confidenze!”, fece l’una; e l’altra: “Quanto ci scommetti che stasera i piccioncini li vedremo tubare?”. Si mangiò, si bevve e si cominciò a ballare. Echeggiarono le note di un appassionato lento e lei, ondeggiandosi al ritmo di quelle, andò a invitare lui per quel ballo… e ballarono con tanto affiatamento e sintonia da essere la coppia più ammirata; e ballarono con tanta passione e trasporto da trovarsi spesso in un ravvicinato guancia a guancia. Ed eccoti subito Fulvia sbottare: “Mamma mia, hai visto che t’hanno fatto?”.  Ed Elvira non tardò a rincarare la dose: “Non ci vogliono più conferme: se la in-ten-do-no!”. A ballo terminato lui cacciò il cellulare e parlò con qualcuno. Lei, ancora mezza affannata, andò a riempirsi il bicchiere e, passando davanti a tutti quelli che stavano seduti, “cin cin” andava dicendo ad ognuno. Arrivata dalle comari, fingendo di volersi riposare, si sedette in mezzo a loro. Queste si guardarono in faccia stupite e imparazzate, ma non poterono fare a meno di intrattenersi a discorrere con lei. Nel bel mezzo della conversazione eccoti arrivare un distinto signore. La bionda, che bazzicava un poco d’italiano, vedendolo esclamò: “Ecco `rivato marito mio!”. “Tuo marito!” fecero quasi all’unisono Fulvia ed Elvira. “Sì, marito mio quello. Perché non sapere voi io essere sposata?”. Mentre lei diceva così il marito le si avvicinò e le diede un bacio sulla bocca. Dopo di che lei gli consigliò, nella lingua del suo paese, di andare a salutare il fratello. Poi, rivolgendosi di nuovo alle sue denigratrici, riprese in tono canzonatorio: “Bello marito mio, eh? Io dicere suo fratello, nostro manager, chiamare lui qui!”.  E senza ombra di dubbio era davvero un pezzo d’uomo, ancora più simpatico del fratello Volfango. Dovette essere appunto per questo significativo particolare che la sconfitta delle nostre care pettegole risultò di un sapore alquanto più umiliante.              

jeudi 23 juillet 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)           

LA CHIAVE NON APRE PIÙ

      “Statti accorto a quello lí!”, suggerì un giorno Giuseppe a un nuovo arrivato: un giovanotto alle prime esperienze lavorative. E quegli rispose: “Mi ha detto che devo chiedere tutto a lui perché è lui che comanda qui dentro!”. “Lui qui non comanda proprio un bel niente! -precisò Giuseppe- Mette solo il bastone fra le ruote alla gente, lui. È il caporeparto quello che comanda qui!”. A dire il vero, Jean-Claude, il vicecapo francese, era puntato a dito da tutti per il suo fare strafottente e la sua gelosia nei confronti del caporeparto stesso: cullava in cuore il desiderio di fargli le scarpe e di prenderne il posto. Ragion per cui si appigliava ad ogni minima scusa per screditarlo e metterlo in cattiva luce. Ma, a quante macchinazioni immaginabili e possibili avesse fatto ricorso,  non sarebbe mai riuscito nel suo intento perché se quello, il suo capo, aveva quell’incarico era perché ne era all’altezza e di “bossacchiotti” come lui se ne metteva una ventina nella manica! Spiegava il da farsi con calma, lasciava lavorare in tranquillità, dava il tempo di fare le cose, era sempre gentile e garbato con tutti. Jean-Claude, al contrario, era lontano un miglio da quel civismo e da quella classe. Lui la gente la considerava come stracci da piedi, guardava tutti con cipiglio e con fare sospettoso come se ogni cosa fosse sbagliata, ti stava sempre addosso e la giornata, con quel peso sulle spalle, sembrava non passare mai. Guai poi se realmente trovava qualcosa che non andava! “Cosa fai? -ti apostrofava subito ad alta voce- Fermati? Chi ti ha insegnato a lavorare così?”. E andava a riferire al suo “rivale”, quasi per dargli a intendere che anche lui era in grado di dirigere il reparto ad arte e mestiere. E, se non fosse stato per il buon senso e la diplomazia del capo, di battibecchi e litigi ne avrebbe creati a non finire il vice. Con quel passo poco andante si tirò innanzi per parecchio e parecchio tempo. Si vociferò pure che a Claude fossero state fatte svariate lavatine di capo, ma lui o fingeva di essere sordo o veramente ci era. Le lagnanze dei giornalieri, le lamentele dei manovali, la conferma a riguardo delle maestranze fecero sì che l’alta direzione della ditta prendesse quella saggia decisione che, in appresso, si rivelò utile per la tranquillità di ognuno e vantaggiosa per il buon rendimento della fabbrica stessa.

      In quella manifattura i “preposti con la chiave”, cioè i responsabili che avevano un ufficio tutto loro chiuso a chiave, allorché il provvedimento doveva essere preso, venivano messi alla porta in maniera originale e caratteristica, in modo silenzioso ed esplicativo, con fare forse cinico ma esemplare. Un metodo un pò crudele, ma che ben si confaceva, e ben gli stette, al carattere spregevole di Jean-Claude. Ecco la dinamica dell’operazione “sfratto”. Anche quel lunedì mattina allorché entrò si diresse, senza minimamente sospettare che lo faceva per l’ultima volta, verso il suo “gabinetto privato”…come gli operai avevano preso l’abitudine di chiamare il suo studiolo. Gli uffici dei supervisori erano situati lungo un corridoio che fiancheggiava il reparto assemblaggio. Appena il nostro malcapitato l’imboccò per recarsi nel suo uffico, l’ultimo in fondo in fondo al corridoio, subito gli operai corsero ad appostarsi all’angolo per assistere alla sua reazione nel tentativo di aprire la porta. Lo sapevano tutti, tranne lui naturalmente, che la serratura era stata cambiata e che la chiave non l’avrebbe aperta: era quella l’insolita procedura con cui si rendeva noto all’interessato che non era più lui il proprietario di quel locale. Praticamente si cercava, silenziosamente, di dirgli: “Passa per l’ufficio principale, dove ti attende…la liquidazione!”. Giunto davanti alla porta già con la chiave in mano, l’infilò nella toppa, ma naturalmente a vuoto. Fece la prova con una seconda chiave, ma nemmeno quella gli aprì la porta. Tra il sospettoso e l’intuitivo si diede uno sguardo sornione intorno e scorse, con la coda dell’occhio, punte di nasi tirarsi prontamente indietro, laggiù, dallo spigolo del corridoio. Pur avendo già capito tutto, tentò ugualmente ad aprire la porta con una terza chiave, ma con lo stesso risultato dei tentativi precedenti. Infilandosi rabbiosamente il mazzo delle chiavi in tasca, diede un calcio alla porta e si avviò verso la “corte suprema” per la sentenza finale. Nell’assemblaggio, intanto, l’aspettavano i suoi dipendenti in doppia fila indiana. Inchinandosi, l’un dopo l’altro al suo passaggio: “Buon giorno e…addio capo!”, lo andavano salutando con palese sarcasmo. “Maledetti! -esplose lui- Potreste ancora pagarmela: non è stata detta l’ultima parola!”. Per gli operai della fabbrica, comunque, quelle furono le ultime che gli sentirono dire perché nessuno lo vide mai più tornare indietro: il suo numero era già stato assegnato a un altro!

mercredi 8 juillet 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)           

PER MEZZO $ IN PIÙ       

      Correvano i tempi in cui nei cieli del Quebec e di Montreal in particolare spirava aria da grande boom economico. Dopo l’Esposizione Mondiale del 1967 si giungeva alla costruzione dei Padiglioni Olimpici nel 1976. Trovavi lavoro quanto ne volevi, dove volevi e come  volevi. Pure i salari erano abbastanza buoni, solo che “chi più ne ha più ne vuole” e quindi si ha sempre l’impressione di non percepire mai la giusta ricompensa per il lavoro prestato. Visto che in quegli anni non mancavano possibilità di assunzioni e di ingaggio, se non ti piaceva in un posto te ne andavi proprio lì di fronte e facevi dispetto ai tuoi vecchi datori di lavoro che o non apprezzavano il tuo comportamento, o non si accontentavano del tuo rendimento o, peggio ancora, pur lodando le tue ottime doti di operaio, facevano orecchio da mercante in fatto di conquibus. Insomma, incontravi tante di quelle opportunità di lavoro che gli uffici del benessere sociale o quelli di cassa integrazione erano tenuti in piedi dagli sfaticati, dai fannulloni o dai furbacchioni. Poiché a quei tempi, infatti, si era soliti chiudere un occhio sul lavoro sotto banco, non erano in pochi quelli che sfruttavano il governo da una parte e fregavano il prossimo dall’altra.

      Giuseppe era stato assunto da poco in una fabbrica di trapunte e ricami dove per la sua diligenza e per il suo impegno era stato subito preso a ben volere da tutti, senza dire che sembrava proprio tagliato per quel mestiere. Dopo neanche qualche mese, con generale meraviglia, gli era stata affidata una “one inch”: una di quelle macchine maggiormente cariche di aghi posti a distanza appunto di un pollice l’uno dall’altro e che richiedevano attenzione e destrezza. Lusingato da tale inatteso privilegio, cominciò a carezzare l’idea di andare a chiedere un aumento paga. “Tu qui dentro sei ben visto; domandalo direttamente al manager, perché se passi per il caporeparto hai voglia ad aspettare!” gli suggerì un amico più anziano di lui. Ma egli preferì seguire la via gerarchica e si rivolse al suo capo  che entusiasticamente gli promise: “Senza alcun dubbio, amico mio. Oggi stesso vado a parlarne in direzione!”. Intanto si susseguirono due giovedì di paga e dell’aumento non si era ancora vista neanche l’ombra. Un po’ timoroso, un po’ titubante, ritornò dal suo superiore e gli chiese spiegazioni. Questi, dandosi una manata sulla fronte in atto di autorimprovero, esclamò: “Mannaggia, come ho fatto a dimenticarmene? Non preoccuparti, metto la tua richiesta in priorità!”. Ma passata la festa, gabbato lo santo, perché pure sul terzo assegno la paga era rimasta invariata.

      Di cosa si parla, qui in America, quando si incontrano o si va a far visita ad amici o parenti? Di salute e subito dopo di lavoro! Di questo si parlò pure quella sera che Giuseppe e la moglie Angela andarono a trovare una coppia di amici che avevano avuto una bambina. E parlando di lavoro diede sfogo anche al suo disappunto per l’aumento richiesto in fabbrica e mai avuto. A quel punto Tony, così si chiamava l’amico, corrugando la fronte in segno di riflessione e gesticolando con l’indice della mano destra, sentenziò: “Stammi a sentire. Voglio farti una proposta. Se ti va, ti va; altrimenti come non detto!”. “Perché non fai come dice lui, Peppino? -disse Angela dopo aver ascoltato il suggerimento dell’amico- Non ti costa nulla andare a provare!”. In pratica Tony aveva fatto capire di essere, in seno alla compagnia per cui lavorava, uno di quelli che possono fare il bello e il brutto tempo a loro piacimento. Di conseguenza aveva proposto all’amico di fare una capatina, il sabato seguente, nella fabbrica in cui lavorava così gli avrebbe fatto vedere il posto che voleva affidargli qualora gli fosse piaciuto. Giuseppe si convinse, passò di lì il sabato dopo, vide il da farsi e acconsentì. “Allora, facciamo una cosa. -disse Tony- Lunedì mattina vieni qui, provi e mi dai una risposta decisiva!”. “Sì, ma dove sto adesso cosa dico?” domandò Giuseppe. E Tony rispose: “Non preoccuparti, la troveremo una buona scusa!”. E no, non poteva farsela sfuggire quell’opportunità più unica che rara: un posto di caporeparto con mezzo dollaro in più all’ora! E così un po’ invogliato dall’amico, un po’ stimolato dagli ottimi vantaggi, accettò e cambiò padroni.

      E in quell’opificio tessile si trovò bene e vi lavorò per svariati anni. Ma benché la mossa diplomatica dell’amico l’intuì sin dai primi giorni di lavoro, né se ne ebbe a male, né gli diede mai a intendere di averla capita. Infatti quel compito, assai delicato e abbastanza impegnativo, era privo di un addetto già da alcune settimane e tale responsabilità era caduta tutta di peso sulle spalle di Tony che aveva trovato in Giuseppe la sua ancora di salvezza. E c’è di più perchè quel mezzo dollaro in più fatto avere a Giuseppe, forse fruttò pure a lui un qualche apprezzamento dalla parte padronale: il precedente addetto a quell’incarico percepiva ben altri cinquanta soldi in più di quelli accordati al nostro Joe, come avevano cominciato a chiamarlo lì!

      E con i suoi vecchi datori di lavoro come la mise? Quando questi l’interpellarono per sapere il motivo della sua dipartita rispose: “Beh vedete, dove sto adesso già mi danno un dollaro in più di quello che mi davate voi!”…esattamente come gli aveva consigliato il suo mecenate per garantire una sicura chiusura dei conti. E in effetti, dall’altro capo del filo, nell’udire ciò, commentarono: “Un dollaro in più?  Se è veramente  così, ti suggerisco di restarci. Pensavo che avessi cambiato per la sciocchezza di qualche semplice soldo!” . E a parlargli così era stato il padrone in persona  della fabbrica di trapunte e ricami.

mardi 23 juin 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore) 

LA SAINT-JEAN

      Correvano i tempi in cui a Montreal di lavoro ce n’era a bizzeffe; ma tanto a bizzeffe che, magari, ne andava di mezzo pure la festa nazionale del Quebec, la Saint-Jean Baptiste. Nella nostra bella provincia, infatti, fra tutte le feste dell’anno questa è la più sentita e rispettata; e guai a chi ne tocca la data. Il 24 giugno cade, per esempio, di giovedì? E allora è quel giorno lì che bisogna festeggiare; e di slittamento al lunedì non se ne parla nemmeno; e tutte le fabbriche devono restare chiuse perché la festa di San Giovanni Battista è sacrosanta.

      Comunque, quando di lavoro ce n’è fin sulla cima dei capelli, popolo consenziente, uno strappo alla regola qualcuno la fa, nonostante sia il giorno del santo protettore. Perciò per quella Saint-Jean Baptiste, nella manifattura dove prestava servizio Giuseppe, furono in parecchi a recarsi al lavoro pure quel santo giorno; naturalmente era stata una loro libera scelta perché nessuno aveva fatto pressione su di essi. In ogni modo lavorare in un giorno festivo fa anche comodo in quanto ci si stressa di meno e si è pagati di più: e  quel giorno lì la retribuzione oraria era il doppio e mezzo. E ci fu tanta aria di rilassamento e spensieratezza che quando suonò la campana di mezzogiorno colse tutti di sorpresa. Salirono in caffetteria per il pranzo e dopo mangiato, come d’abitudine, ci fu pure chi si fece la passatella a carte. Ritornando giù dopo la sosta, nel vedere i locali semibui, cominciarono a chiedersi l’un l’altro: “Che succede?”, “Perché le luci sono spente?”, “Mica si finisce adesso?”. In fondo al corridoio che portava all’ufficio scorsero il figlio del padrone con due signori: uno distinto e incravattato, l’altro in manica di camicia e barba folta. Da dietro una macchina di fronte alla scalinata sbucò fuori il caporeparto che, in fretta e furia, cercava di metterli fuori alla chetichella. «Via, via! Non vi fate vedere!» andava ripetendo a ciascuno  indicando la porta. “Ma cosa è succes…” provò a chiedere qualcuno e lui: “Presto, presto, uscite! Vi spiegherò tutto domani!”. E ognuno se ne tornò a casa all’oscuro dell’accaduto e mezzo preoccupato.

      Quando l’indomani Giuseppe si presentò in azienda con sguardo interrogativo, per alcuni il mistero non aveva più segreti. Infatti quando lui chiese: “E allora?”, si sentì rispondere: “Ma non hai ancora capito niente?”; e un altro gli fece: “Insomma, bisogna proprio metterti le cose col cucchiaino in bocca?”; e un terzo spiegò: “Ti ricordi di Denis, il caposquadra francese che è stato slaccato qualche mese fa? È stato lui la causa di tutto quel trambusto di ieri!”. Ma ecco come erano andati i fatti. Denis era una di quelle persone che, per la loro arroganza, non vanno d’accordo con nessuno e sono malviste da tutti. Inutile dire che era sul libro nero della compagnia e che si era in attesa del momento opportuno per sbatterlo fuori. Siccome era pure uno di quelli che di leggi se intendono, fu un po’ difficile raggiungere lo scopo ma alla fine ci si riuscì. Intanto si dava anche il caso che Denis fosse tra quei sapientoni che conoscono tutti i buchi, sanno dove muovere i passi e dove mettere le mani…soprattutto allorché si vuole giustiziare legalmente qualcuno. Perciò, a mo’ di vendetta, si recò dove lui ben sapeva e spiattellò che nella ditta Tal dei Tali, situata al numero civico tot della via Caio e Sempronio, si era soliti aprire i battenti pure il giorno della festa patronale del paese, la Saint-Jean Baptiste. Si doveva a lui, quindi, la presenza dei due signori in manifattura quel giorno di festa: in qualità di tutori dei sacri diritti, erano venuti a intimare l’obbligo del precetto festivo…che da quel giorno in poi anche lì si è presa l’abitudine di osservare rigorosamente!