jeudi 23 juillet 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)           

LA CHIAVE NON APRE PIÙ

      “Statti accorto a quello lí!”, suggerì un giorno Giuseppe a un nuovo arrivato: un giovanotto alle prime esperienze lavorative. E quegli rispose: “Mi ha detto che devo chiedere tutto a lui perché è lui che comanda qui dentro!”. “Lui qui non comanda proprio un bel niente! -precisò Giuseppe- Mette solo il bastone fra le ruote alla gente, lui. È il caporeparto quello che comanda qui!”. A dire il vero, Jean-Claude, il vicecapo francese, era puntato a dito da tutti per il suo fare strafottente e la sua gelosia nei confronti del caporeparto stesso: cullava in cuore il desiderio di fargli le scarpe e di prenderne il posto. Ragion per cui si appigliava ad ogni minima scusa per screditarlo e metterlo in cattiva luce. Ma, a quante macchinazioni immaginabili e possibili avesse fatto ricorso,  non sarebbe mai riuscito nel suo intento perché se quello, il suo capo, aveva quell’incarico era perché ne era all’altezza e di “bossacchiotti” come lui se ne metteva una ventina nella manica! Spiegava il da farsi con calma, lasciava lavorare in tranquillità, dava il tempo di fare le cose, era sempre gentile e garbato con tutti. Jean-Claude, al contrario, era lontano un miglio da quel civismo e da quella classe. Lui la gente la considerava come stracci da piedi, guardava tutti con cipiglio e con fare sospettoso come se ogni cosa fosse sbagliata, ti stava sempre addosso e la giornata, con quel peso sulle spalle, sembrava non passare mai. Guai poi se realmente trovava qualcosa che non andava! “Cosa fai? -ti apostrofava subito ad alta voce- Fermati? Chi ti ha insegnato a lavorare così?”. E andava a riferire al suo “rivale”, quasi per dargli a intendere che anche lui era in grado di dirigere il reparto ad arte e mestiere. E, se non fosse stato per il buon senso e la diplomazia del capo, di battibecchi e litigi ne avrebbe creati a non finire il vice. Con quel passo poco andante si tirò innanzi per parecchio e parecchio tempo. Si vociferò pure che a Claude fossero state fatte svariate lavatine di capo, ma lui o fingeva di essere sordo o veramente ci era. Le lagnanze dei giornalieri, le lamentele dei manovali, la conferma a riguardo delle maestranze fecero sì che l’alta direzione della ditta prendesse quella saggia decisione che, in appresso, si rivelò utile per la tranquillità di ognuno e vantaggiosa per il buon rendimento della fabbrica stessa.

      In quella manifattura i “preposti con la chiave”, cioè i responsabili che avevano un ufficio tutto loro chiuso a chiave, allorché il provvedimento doveva essere preso, venivano messi alla porta in maniera originale e caratteristica, in modo silenzioso ed esplicativo, con fare forse cinico ma esemplare. Un metodo un pò crudele, ma che ben si confaceva, e ben gli stette, al carattere spregevole di Jean-Claude. Ecco la dinamica dell’operazione “sfratto”. Anche quel lunedì mattina allorché entrò si diresse, senza minimamente sospettare che lo faceva per l’ultima volta, verso il suo “gabinetto privato”…come gli operai avevano preso l’abitudine di chiamare il suo studiolo. Gli uffici dei supervisori erano situati lungo un corridoio che fiancheggiava il reparto assemblaggio. Appena il nostro malcapitato l’imboccò per recarsi nel suo uffico, l’ultimo in fondo in fondo al corridoio, subito gli operai corsero ad appostarsi all’angolo per assistere alla sua reazione nel tentativo di aprire la porta. Lo sapevano tutti, tranne lui naturalmente, che la serratura era stata cambiata e che la chiave non l’avrebbe aperta: era quella l’insolita procedura con cui si rendeva noto all’interessato che non era più lui il proprietario di quel locale. Praticamente si cercava, silenziosamente, di dirgli: “Passa per l’ufficio principale, dove ti attende…la liquidazione!”. Giunto davanti alla porta già con la chiave in mano, l’infilò nella toppa, ma naturalmente a vuoto. Fece la prova con una seconda chiave, ma nemmeno quella gli aprì la porta. Tra il sospettoso e l’intuitivo si diede uno sguardo sornione intorno e scorse, con la coda dell’occhio, punte di nasi tirarsi prontamente indietro, laggiù, dallo spigolo del corridoio. Pur avendo già capito tutto, tentò ugualmente ad aprire la porta con una terza chiave, ma con lo stesso risultato dei tentativi precedenti. Infilandosi rabbiosamente il mazzo delle chiavi in tasca, diede un calcio alla porta e si avviò verso la “corte suprema” per la sentenza finale. Nell’assemblaggio, intanto, l’aspettavano i suoi dipendenti in doppia fila indiana. Inchinandosi, l’un dopo l’altro al suo passaggio: “Buon giorno e…addio capo!”, lo andavano salutando con palese sarcasmo. “Maledetti! -esplose lui- Potreste ancora pagarmela: non è stata detta l’ultima parola!”. Per gli operai della fabbrica, comunque, quelle furono le ultime che gli sentirono dire perché nessuno lo vide mai più tornare indietro: il suo numero era già stato assegnato a un altro!

mercredi 8 juillet 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)           

PER MEZZO $ IN PIÙ       

      Correvano i tempi in cui nei cieli del Quebec e di Montreal in particolare spirava aria da grande boom economico. Dopo l’Esposizione Mondiale del 1967 si giungeva alla costruzione dei Padiglioni Olimpici nel 1976. Trovavi lavoro quanto ne volevi, dove volevi e come  volevi. Pure i salari erano abbastanza buoni, solo che “chi più ne ha più ne vuole” e quindi si ha sempre l’impressione di non percepire mai la giusta ricompensa per il lavoro prestato. Visto che in quegli anni non mancavano possibilità di assunzioni e di ingaggio, se non ti piaceva in un posto te ne andavi proprio lì di fronte e facevi dispetto ai tuoi vecchi datori di lavoro che o non apprezzavano il tuo comportamento, o non si accontentavano del tuo rendimento o, peggio ancora, pur lodando le tue ottime doti di operaio, facevano orecchio da mercante in fatto di conquibus. Insomma, incontravi tante di quelle opportunità di lavoro che gli uffici del benessere sociale o quelli di cassa integrazione erano tenuti in piedi dagli sfaticati, dai fannulloni o dai furbacchioni. Poiché a quei tempi, infatti, si era soliti chiudere un occhio sul lavoro sotto banco, non erano in pochi quelli che sfruttavano il governo da una parte e fregavano il prossimo dall’altra.

      Giuseppe era stato assunto da poco in una fabbrica di trapunte e ricami dove per la sua diligenza e per il suo impegno era stato subito preso a ben volere da tutti, senza dire che sembrava proprio tagliato per quel mestiere. Dopo neanche qualche mese, con generale meraviglia, gli era stata affidata una “one inch”: una di quelle macchine maggiormente cariche di aghi posti a distanza appunto di un pollice l’uno dall’altro e che richiedevano attenzione e destrezza. Lusingato da tale inatteso privilegio, cominciò a carezzare l’idea di andare a chiedere un aumento paga. “Tu qui dentro sei ben visto; domandalo direttamente al manager, perché se passi per il caporeparto hai voglia ad aspettare!” gli suggerì un amico più anziano di lui. Ma egli preferì seguire la via gerarchica e si rivolse al suo capo  che entusiasticamente gli promise: “Senza alcun dubbio, amico mio. Oggi stesso vado a parlarne in direzione!”. Intanto si susseguirono due giovedì di paga e dell’aumento non si era ancora vista neanche l’ombra. Un po’ timoroso, un po’ titubante, ritornò dal suo superiore e gli chiese spiegazioni. Questi, dandosi una manata sulla fronte in atto di autorimprovero, esclamò: “Mannaggia, come ho fatto a dimenticarmene? Non preoccuparti, metto la tua richiesta in priorità!”. Ma passata la festa, gabbato lo santo, perché pure sul terzo assegno la paga era rimasta invariata.

      Di cosa si parla, qui in America, quando si incontrano o si va a far visita ad amici o parenti? Di salute e subito dopo di lavoro! Di questo si parlò pure quella sera che Giuseppe e la moglie Angela andarono a trovare una coppia di amici che avevano avuto una bambina. E parlando di lavoro diede sfogo anche al suo disappunto per l’aumento richiesto in fabbrica e mai avuto. A quel punto Tony, così si chiamava l’amico, corrugando la fronte in segno di riflessione e gesticolando con l’indice della mano destra, sentenziò: “Stammi a sentire. Voglio farti una proposta. Se ti va, ti va; altrimenti come non detto!”. “Perché non fai come dice lui, Peppino? -disse Angela dopo aver ascoltato il suggerimento dell’amico- Non ti costa nulla andare a provare!”. In pratica Tony aveva fatto capire di essere, in seno alla compagnia per cui lavorava, uno di quelli che possono fare il bello e il brutto tempo a loro piacimento. Di conseguenza aveva proposto all’amico di fare una capatina, il sabato seguente, nella fabbrica in cui lavorava così gli avrebbe fatto vedere il posto che voleva affidargli qualora gli fosse piaciuto. Giuseppe si convinse, passò di lì il sabato dopo, vide il da farsi e acconsentì. “Allora, facciamo una cosa. -disse Tony- Lunedì mattina vieni qui, provi e mi dai una risposta decisiva!”. “Sì, ma dove sto adesso cosa dico?” domandò Giuseppe. E Tony rispose: “Non preoccuparti, la troveremo una buona scusa!”. E no, non poteva farsela sfuggire quell’opportunità più unica che rara: un posto di caporeparto con mezzo dollaro in più all’ora! E così un po’ invogliato dall’amico, un po’ stimolato dagli ottimi vantaggi, accettò e cambiò padroni.

      E in quell’opificio tessile si trovò bene e vi lavorò per svariati anni. Ma benché la mossa diplomatica dell’amico l’intuì sin dai primi giorni di lavoro, né se ne ebbe a male, né gli diede mai a intendere di averla capita. Infatti quel compito, assai delicato e abbastanza impegnativo, era privo di un addetto già da alcune settimane e tale responsabilità era caduta tutta di peso sulle spalle di Tony che aveva trovato in Giuseppe la sua ancora di salvezza. E c’è di più perchè quel mezzo dollaro in più fatto avere a Giuseppe, forse fruttò pure a lui un qualche apprezzamento dalla parte padronale: il precedente addetto a quell’incarico percepiva ben altri cinquanta soldi in più di quelli accordati al nostro Joe, come avevano cominciato a chiamarlo lì!

      E con i suoi vecchi datori di lavoro come la mise? Quando questi l’interpellarono per sapere il motivo della sua dipartita rispose: “Beh vedete, dove sto adesso già mi danno un dollaro in più di quello che mi davate voi!”…esattamente come gli aveva consigliato il suo mecenate per garantire una sicura chiusura dei conti. E in effetti, dall’altro capo del filo, nell’udire ciò, commentarono: “Un dollaro in più?  Se è veramente  così, ti suggerisco di restarci. Pensavo che avessi cambiato per la sciocchezza di qualche semplice soldo!” . E a parlargli così era stato il padrone in persona  della fabbrica di trapunte e ricami.

mardi 23 juin 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore) 

LA SAINT-JEAN

      Correvano i tempi in cui a Montreal di lavoro ce n’era a bizzeffe; ma tanto a bizzeffe che, magari, ne andava di mezzo pure la festa nazionale del Quebec, la Saint-Jean Baptiste. Nella nostra bella provincia, infatti, fra tutte le feste dell’anno questa è la più sentita e rispettata; e guai a chi ne tocca la data. Il 24 giugno cade, per esempio, di giovedì? E allora è quel giorno lì che bisogna festeggiare; e di slittamento al lunedì non se ne parla nemmeno; e tutte le fabbriche devono restare chiuse perché la festa di San Giovanni Battista è sacrosanta.

      Comunque, quando di lavoro ce n’è fin sulla cima dei capelli, popolo consenziente, uno strappo alla regola qualcuno la fa, nonostante sia il giorno del santo protettore. Perciò per quella Saint-Jean Baptiste, nella manifattura dove prestava servizio Giuseppe, furono in parecchi a recarsi al lavoro pure quel santo giorno; naturalmente era stata una loro libera scelta perché nessuno aveva fatto pressione su di essi. In ogni modo lavorare in un giorno festivo fa anche comodo in quanto ci si stressa di meno e si è pagati di più: e  quel giorno lì la retribuzione oraria era il doppio e mezzo. E ci fu tanta aria di rilassamento e spensieratezza che quando suonò la campana di mezzogiorno colse tutti di sorpresa. Salirono in caffetteria per il pranzo e dopo mangiato, come d’abitudine, ci fu pure chi si fece la passatella a carte. Ritornando giù dopo la sosta, nel vedere i locali semibui, cominciarono a chiedersi l’un l’altro: “Che succede?”, “Perché le luci sono spente?”, “Mica si finisce adesso?”. In fondo al corridoio che portava all’ufficio scorsero il figlio del padrone con due signori: uno distinto e incravattato, l’altro in manica di camicia e barba folta. Da dietro una macchina di fronte alla scalinata sbucò fuori il caporeparto che, in fretta e furia, cercava di metterli fuori alla chetichella. «Via, via! Non vi fate vedere!» andava ripetendo a ciascuno  indicando la porta. “Ma cosa è succes…” provò a chiedere qualcuno e lui: “Presto, presto, uscite! Vi spiegherò tutto domani!”. E ognuno se ne tornò a casa all’oscuro dell’accaduto e mezzo preoccupato.

      Quando l’indomani Giuseppe si presentò in azienda con sguardo interrogativo, per alcuni il mistero non aveva più segreti. Infatti quando lui chiese: “E allora?”, si sentì rispondere: “Ma non hai ancora capito niente?”; e un altro gli fece: “Insomma, bisogna proprio metterti le cose col cucchiaino in bocca?”; e un terzo spiegò: “Ti ricordi di Denis, il caposquadra francese che è stato slaccato qualche mese fa? È stato lui la causa di tutto quel trambusto di ieri!”. Ma ecco come erano andati i fatti. Denis era una di quelle persone che, per la loro arroganza, non vanno d’accordo con nessuno e sono malviste da tutti. Inutile dire che era sul libro nero della compagnia e che si era in attesa del momento opportuno per sbatterlo fuori. Siccome era pure uno di quelli che di leggi se intendono, fu un po’ difficile raggiungere lo scopo ma alla fine ci si riuscì. Intanto si dava anche il caso che Denis fosse tra quei sapientoni che conoscono tutti i buchi, sanno dove muovere i passi e dove mettere le mani…soprattutto allorché si vuole giustiziare legalmente qualcuno. Perciò, a mo’ di vendetta, si recò dove lui ben sapeva e spiattellò che nella ditta Tal dei Tali, situata al numero civico tot della via Caio e Sempronio, si era soliti aprire i battenti pure il giorno della festa patronale del paese, la Saint-Jean Baptiste. Si doveva a lui, quindi, la presenza dei due signori in manifattura quel giorno di festa: in qualità di tutori dei sacri diritti, erano venuti a intimare l’obbligo del precetto festivo…che da quel giorno in poi anche lì si è presa l’abitudine di osservare rigorosamente!

lundi 8 juin 2015


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore) 

LA RIVINCITA

      Correvano gli anni ottanta. Un pomeriggio Giuseppe tornava a casa dal lavoro ascoltando,  in macchina, la sua radio del cuore. L’animatrice aveva come suo ospite negli studi radio un rapprentante degli uffici per la tutela dei diritti del lavoratore. La conversazione era interessante e toccava argomenti utili a sapersi, anche se poi più di qualcuno non avrebbe avuto mai bisogno di usufruirne. Lui personalmente, per esempio, non pensava mai di dover ricorrere a un simile ente né tantomeno ai suoi servizi completamente gratuiti “a pord’zo”, come direbbero i francesi di qui. Li prese ugualmente, però, il numero di telefono e l’indirizo dati per radio da quel signore; li annotò e li ripose nel cassetto portaguanti del cruscotto dove teneva altri appunti del genere. Dove lavorava a quei tempi gli avevano dato la responsabilità  del reparto spedizioni. Prendeva una buona paga, la fabbrica andava avanti a gonfie vele, era tenuto in grande considerazione e, quindi, non vedeva proprio un come e un quando si sarebbe potuto trovare nella necessità di dover fare ricorso a quei “santi avvocati” del popolo.

      Passarono suppergiù un paio di anni e il presidente fondatore dell’impresa, dove Giuseppe aveva ormai quasi messo  radici, si ammalò. Cancro maligno, purtroppo, fu l’esito della diagnosi. Sì, proprio quel brutto male che, se ti prende, ti porta immancabilmente dinamzi al Padre Eterno…a scorno sia dei tuoi soldi che della tua importanza! E non ci fu più nulla da fare neanche per lui: anch’egli adesso appartiene al passato e quelli che, ricordandolo, lo chiamano “buon’anima” lo fanno perché fu veramente un brav’uomo, anzi un signore. La sua morte fu come una tempesta in alto mare che, sfortunatamente, portò alla deriva il pur ben veleggiante vascello tessile «di Giuseppe» . Se questo non affondò completamente, fu grazie all’acquisto di esso da parte di altri industriali operanti nello stesso settore. Quel cambio di gestione, però, portò pure una svolta nei modi di pensare, di dire e di fare dell’azienda; detti mutamenti, se per alcuni furono un bene, a molti causarono problemi e grattacapi. Fatidico caso, quest’ultimo, principalmente per coloro che, come il nostro capospedizioniere, si trovavano “in alto loco”; non è forse vero che il toro va preso per le corna? Perché questo e perché quello, come mai di qua e come mai di là, o furono loro a metterselo sul naso o forse fu lui a non saper farsi ben volere…fatto sta che un bel giovedì, allegata alla busta paga, trovò una chiara lettera di licenziamento con effetto quasi immediato: dal lunedì successivo non faceva più parte di quella compagnia! “Non possono slaccarti così su due piedi! Va’ a protestare!” gli suggerì un compagno malvisto anche lui, naturalmente. “Ma no; preferisco andarmi a cercare un lavoro altrove. Ne ho fin sulla cima dei capelli della loro autoritaria arroganza!” ribattè Giuseppe che ormai lì dentro ci stava troppo stretto per poterci restare più a lungo.

      In effetti un altro impiego lo trovò abbastanza presto e senza difficoltà. Nel nuovo posto, intanto, un vecchio volpone del mestiere, con cui Giuseppe aveva fatto amicizia sin dal primo giorno, gli mise la pulce nell’orecchio che avrebbe fatto bene ad andare a reclamare alquanto prima la sua liquidazione nella vecchia fabbrica, altrimenti quelli avrebbero fatto i matti per non andare in guerra. Diede ascolto al nuovo amico e telefonò. “Oh, non preoccuparti, -gli fu risposto- ti manderemo il tutto per le vacanze della costruzione!”. Le vacanze arrivarono e passarono, ma del “tutto” non si era vista neanche l’ombra. Richiamò e si sentì dire: “Ah sì, la tua cecca è sul tavolivo del padrone; appena lui la segna te la mandiamo!”. E una volta e due e tre, finché un giorno ricompose il numero e fece secco: “Se al vostro padrone manca la penna per fir.ma.re l’as.se.gno, adesso glie la porto io una di marca!”. Riattaccò con loro e diede subito un colpo di telefono al famoso numero udito un lontano giorno alla radio italiana. Spiegò il suo caso, gli fu dato un appuntamento e, con la precisione di un orologio svizzero, fu sul posto nel giorno e all’ora stabilita. Venne accolto gentilmente, gli si diede il tempo di esporre le sue cose e, per tutta risposta gli fu suggerito: “Appena hai tutte le prove per dimostrare che hai lavorato in quella ditta per oltre undici anni, portacele e risolveremo il tuo problema!”. “Sì, -soggiunse lui- ma quali prove?”. “Per esempio tutte le slippe paga settimanali!”. Una parola! Dove andarli a prendere, adesso, tutti i tagliandi con le trattenute se, di volta in volta, staccato l’assegno, li gettava via come carta inutile? Fu il contabile che gli faceva la dichiarazione dei redditi che si impegnò a procurargli le ricevute in questione. E così, appena le ebbe in mano, si precipitò subito dove di dovere per un adeguato “risarcimento danni”. L’impiegato d’ufficio diede un colpo d’occhio alle fotocopie da lui portate, riesaminò il dossier e, complimentandosi con lui per la causa quasi già vinta, gli espose tutti i vantaggi di cui avrebbe potuto usufruire. Eccoli esposti in breve: retribuzione corrispondente a due settimane di mancato preavviso; sei per cento della paga annua come congruo vacanze, o liquidazione come sarebbe meglio dire; e, se voleva, poteva anche riprendervi servizio essendo stato messo alla porta senza un giusto motivo.

      Ma Giuseppe conciliò: “Che mi diano soltanto quello che mi spetta. In quanto a ritornare lì…manco morto!”. E fu così che, grazie all’ascolto della nostra radio amica di Montreal, la cfmb, potè arrotondare di parecchi soldini il suo conto in banca…senza aver dovuto sborsare, pertanto, neanche un centesimo.

vendredi 22 mai 2015


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Prefazione                                                                                                                                                                  

      Chi prima e chi poi, chi più e chi meno, chi bene e chi male l’abbiamo fatta tutti l’America noialtri emigranti. Ci venimmo, infatti, e vi ci siamo pure rimasti. Fare l’America è stato sempre sinonimo di riuscita, di sfondamento, di successo. Noi italiani residenti a Montreal scegliemmo il Canada come paese di adozione e in esso, oltre a trapiantarvi le nostre radici, vi ci abbiamo costruito addirittura un nuovo avvenire. Per molti di noi questo paese è stato realmente un suolo dove fare soldi a palate; per alcuni, purtroppo, si è rivelato come una terra dove le loro speranze sono rimaste pietrificate tra cemento e asfalto.

      Intanto anche questa è America. Pure quella di tanti poveracci che possono solo simulare di averla fatta; in cuor loro, infatti, vanno rimpiangendo di esserci venuti o rammaricandosi di non aver saputo cogliere per tempo questa o quell’altra occasione che avrebbe cambiato da così a così la loro vita o che avrebbe fatto pure di essi della gente fortunata. Dissesti finanziari, dissapori familiari, delusioni sentimentali, progetti non realizzati, sogni rimasti in un cassetto. Vascelli in balia delle onde, corse senza traguardi, vette mai toccate, gare sempre perse. Fatti di gente ordinaria, episodi di uomini dappoco, gesta di persone incapaci o forse ostacolate oppure scavalcate. Vicende di ieri e di oggi, avvenimenti di sempre, cose del semplice quotidiano, segreti spesso repressi, confidenze fatte soltanto a pochi, fatterelli forse di nessuno ma tenuti insieme dal comune subcosciente di tutti.

      Sì, anche questa è America. Pure quella racchiusa nelle storielle di poco conto che andrete leggendo in questi miei racconti non necessariamente autobiografici; è molto più facile, infatti, narrare con una certa verosimiglianza letteraria i fatti degli altri anziché i propri. Come mai, allora, il protagonista della maggior parte di questi porta il nome di Giuseppe? Beh perché, trattandosi generalmente di un povero spiantato, ho preferito dargli il mio nome di battesimo anziché uno dei vostri. Sarete in parecchi, comunque, voi che mi leggete a trovare pure la vostra immagine riflessa in questo modesto specchio di vita emigrante.

Sì, anche questa è America. Pure quella fatta da tanta gente insignificante, ma grazie a cui non pochi sono divenuti grandi. Pure quella fatta da tanta gente senza un nome  e priva di un volto, ma alle cui spalle non sono stati in pochi a mettersi in luce e a divenire illustri. Essere egregio, infatti, vuol dire appunto staccarsi dal gregge, uscire dalla massa…distinguendosi però, naturalmente.

lundi 27 avril 2015


Venti superfantastici spettacoli

«Vent’anni è un sogno che non torna più» recita una vecchia canzone italiana; a proposito di vent’anni e di vecchie canzoni, il 26 aprile 2015 CFMB ha «mandato in onda» la 2oma edizione del suo Superfantastico. Mamma mia quanti anni sono passati senza essercene nemmeno accorti; che bello  quei tanti talenti che abbiamo avuto modo di scoprire durante tutti questi anni; e ci pensate alle belle emozioni che i nostri ragazzi ci vanno ancora facendo rivivere, con il loro andare a spolverare per noi tanti motivi indimenticabili composti anni ed anni fa, prima ancora che essi nascessero? È inutile perdersi in chiacchiere o fantasticare in cerca di parole per ben definire lo spettacolo…è semplicemente SU-PER-FAN-TA-STI-CO! Ed è così superfantastico che, pur avendo già compiuto 20 anni, ha ancora tutta una vita davanti a sé.

      Nick De Vincenzo e Silvana Di Flavio: è questo il binomio promotore che lo ha tenuto a battesimo e continua a mandarlo avanti curandolo nei minimi particolari. Nato quasi timidamente nel 1996 è andato sempre più prendendo quota lungo gli anni, facendo registrare un sempre più crescente interesse comunitario e numero di spettatori. Questi sono solo i primi vent’anni di un dialogo tra diverse generazioni; è addirittura un colloquio tra bisnonni e pronipoti; è da un ventennio che i nostri figli vanno a frugare nelle radici dei loro padri per attingere alla linfa della loro terra di origine, quasi per dissetarsi alla sorgente della musica leggera italiana; è da un ventennio, allora, che la radio italiana di Montreal va educando l’italianità dei nostri giovani attraverso una canzone. In questa simpatica comunicazione intergenerazionale cullata sulle onde delle note, il presente va a tendere la mano al passato quasi a raccoglierne il testimone: la fiducia nel futuro che si nutre della tradizione! Anche a CFMB sono convinti di questo, ragion per cui come stazione radio si impegnano a lavorare seriamente per attirare l’attenzione delle future generazioni; nello specifico di questo contesto Nick e Silvana sono del parere che il Superfantastico è la strada più spedita per farlo; essi sono convinti che mantenere una lingua viva vuol dire mantenere una cultura; ed allora, impegnarsi sia pur minimamente a convogliarla nel domani, questo è veramente stupendo. E che dire del passaggio sul palco delle piccole «lambrette»? Sono proprio queste giovanissime promesse a toccare maggiormente il cuore; sono le loro voci genuine, a volte sorprendentemente calibrate, a toccare il petto e ad imperlare gli occhi. A parte questo mi permetto di dire qualcos’altro di più profondo e lungimirante: mettere il più presto possibile sulla bocca di un ragazzino la parlata dei padri, sia pure mediante il canto, è registrare nella sua mente e mettere nella custodia del suo animo la lingua della terra di origine; ciò premesso deduco che l’odierna quarta lingua, quella di Dante, la più studiata al mondo, potrebbe divenire anche una delle più parlate proprio grazie ad iniziative del genere. I ragazzi in età dell’obbligo scolastico, eccolo il tratto di cielo dove puntare il cannocchiale per il futuro di un’italiano parlato.   

      Alle tante emozioni che una simile manifestazione comporta di per sé, ve ne sono pure delle mie personali che vorrei raccontarvi. Nel 1999 vi ho assistito con particolare interesse in quanto tra i concorrenti figurava una mia alunna di quell’anno che si presentò con «Partirò» del grande Bocelli; nel 2011 vinse l’interprete della canzone «Il silenzio»: alcuni giorni dopo venni a sapere che era una mia compaesana, addirittura nipote di un mio grande amico…naturalmente essa fu ospite d’onore al banchetto annuale della nostra Associazione paesana. Un concorso canoro non è mai fine a sé stesso, anzi per non pochi dei partecipanti si rivela quasi un trampolino di lancio per futuri successi; anche se alcuni  scompariranno nel nulla come stelle vaganti, molti di essi, soprattutto se ben determinati e artisticamente dotati, coltivando questo talento per il canto sfonderanno di certo nel firmamento musicale.  Navigando su fb, per esempio, vedo parecchi di questi giovani italo canadesi che hanno formato gruppi e complessi canori per realizzare i loro sogni nel cassetto costellati di note. Ne volete qualche testimonianza? Ebbene, il «Dolceamare Girl Goup» a breve al Centro Leonardo da Vinci lancerà il suo primo singolo dal titolo «SentiQuestaVoce»; e chi sono le componenti del duo? Nadia Dolce e Alessandra Tropeano…due voci di Superfantastico. Ma ci sono tanti e tanti altri di questi concorrenti  che della musica se ne vanno facendo una ragione di vita, di cui eccovene alcuni: Felicia Tropeano, Andrea Decola David, Rosa Defenza, Liana Carbone e Mike Melino, uno degli addetti alla consol negli studi radio di CFMB; se ne conescete altri aggiungeteli voi stessi perché di sicuro ve ne sono e meritano di essere presi in considerazione tutti quanti.  Di certo sta il fatto che il vincitore del Superfantastico già da alcuni anni partecipa come ospite d’onore a delle manifestazioni canore in Patria: una bella finestra per affacciarsi sul mondo; e chissà che d’ora in poi non potrebbe andare anche a far sosta in qualche tappa del Cantagiro…visto la gradita presenza in giuria dell’illustre Dario Salvatori! Intanto, dulcis in fundo, avete seguito il concorso «La voix» su TVA? È da tempo che, complice la Rai, forse non ci sintonizziamo più tanto spesso sui programmi francesi o inglesi; ultimamente però, c’è stata una piccola eccezione alla regola perché siamo stati in tanti a seguire con particolare interesse il sopracitato show televisivo dove si è messa in luce Angelike Falbo, una nota voce  di Superfantastico. Un tuffo al cuore ad ogni suo passaggio ai turni successivi, una squisita ciliegina sulla torta di questi venti superfantastici spettacoli, una emozionante soddisfazione per Nick e Silvana, per la CFMB e per tutti noi italiani in quanto tra i quattro finalisti di domenica 12 aprile, oltre all’altro talento italocanadese Rosa Laricchiuta, c’è stata  pure la giovanissima Angelike…«una ragazza di Calabria» che ha iniziato la sua avventura artistica grazie alla nostra stazione radio di Montreal. Anche se la nuova voce del Quebec, edizione 2015, consacrata da TVA risponde al nome di Kevin Bazinet, Angelike è stata presente sul palco alla grande come conferma pure il secondo posto conferitole dal voto popolare; sorprendente l’inaspettato supporto datole da Christina Aguilera e molto significativo il complimento fattole dalla sua maestra Isabelle Boulay che ha detto di vedere in lei «la stoffa dei soldati valorosi»!   

Mi permetto di tornare indietro nel tempo per sottolineare che il Rinascimento italiano fu possibile grazie al mecenatismo che favorì il fiorire delle arti e dell’umanesimo. Detto questo vi invito ad alzarvi in piedi per una standing ovation agli odierni mecenati che supportano la cultura in genere e che favoriscono la riuscita dei tanti concorsi e manifestazioni come questo Superfantastico in particolare. Sono ben 16 gli sponsor che quest’anno hanno reso possibile la kermesse, di cui mi limito a citare solo i due più significativi. Non posso far passare sotto silenzio, infatti, la mitica «Pina & Carmelo Sacco Lingerie», da anni ed anni al servizio della nostra gente e delle nostre case, che è stata la prima a credere nello spettacolo ed a sostenerlo sin dalla prima edizione; inoltre è stata sempre presente anche in altre trasmissioni radiofoniche di carattere culturale come, per esempio, il concorso di poesie «E vorrei dire» a cui ho sempre partecipato anch’io. L’altro mecenate che vorrei mettere in evidenza è la «Ditta Saputo», il made in Canada italiano famoso in tutto il mondo, nonché quasi lo sponsor ufficiale della cultura italiana a tutto sesto e ad ogni livello immaginabile e possibile.

Tornando al concetto iniziale di un buon rapporto della tradizione con la fiducia, ci tengo a sottolineare che affidare ai giovani una canzone è come mettere nelle loro mani un patrimonio culturale; ebbene CFMB, la stazione radio internazionale di Montreal, è da ben vari annetti prima della RAI, la radio-televisione italiana, che va lasciando una canzone ai nostri figli nati in terra canadese! Intanto è caduto il sipario pure sulla 20ma edizione del Superfantastico…quella che la storia dirà che è stata vinta da Jessica Abbruzzese. Col sole che è sorto lunedì mattina 27 aprile anche il sogno di questo ventesimo è tornato alla realtà…la stupenda realtà di poter dare inizio ad un altro ventennio di superfantastici spettacoli con CFMB ed i giovani talenti nostrani, sempre più orgogliosi di cantare in italiano!    

jeudi 19 mars 2015


Gente nostra

Ripensando alle mie esperienze di insegnante, spesso mi soffermo a rivivere quei momenti in cui alcuni miei alunni sono stati premiati in concorsi vari a cui io li ho sempre premurosamente invogliati a partecipare. Ce n’è uno in particolare che mi piace raccontarvi anche perché mi da la possibilità di meditare su quanto onesto sudore della nostra gente sono impregnate le pietre e i mattoni di tanti edifici  e costruzioni della grande Montreal.

Non ricordo più in che anno, ma una volta l’Università di Montreal bandì un concorso per giovani studenti multietnici. Il tema da svolgere era «Incontro ai nonni», ed eccovi qui di seguito lo svolgimento dell’allora mio alunno Anthony Franceschini. «Un sabato mattina a scuola si parlava di storia. Il maestro raccontava dei gruppi etnici che venivano a stabilirsi in Canada.  Ad un tratto…ho preso il volo con la fantasia, cosa che mi capita spesso! Mi sono immaginato pure io su di una nave, che si dirigeva verso il Nuovo Mondo, assieme a tutta quella gente che tanti anni fa lasciava l’Italia per venire a vivere in Canada. Stavo camminando sul ponte dell’immenso bastimento quando il capitano dava l’annunzio che in poche ore saremmo giunti ad Halifax. Erano tutti ottimisti quegli italiani sulla nave; tutti volevano cominciare una nuova vita lontani dalla guerra! Quegli emigranti erano sarti, falegnami, barbieri, muratori, ristoratori, calzolai, meccanici…tutta gente che portava usanze e tradizioni nuove da radicare in America! Col tempo si sarebbero comprata una casa e poi, con l’aiuto di Dio, si sarebbero formata una famiglia. Erano queste le speranze di quegli emigranti: una casa dove abitare con la famiglia che è la base di ogni buona società. In questa nuova terra la nostra gente si è andata scambiando abitudini e costumi con altre genti e ha pensato pure all’istruzione all’italiana dei propri figli. Ha praticato la sua fede e ha fatto conoscere la sua cultura. A Montreal, infatti, strade, parchi, edifici, monumenti, interi rioni cittadini parlano italiano. Ecco: nella mia fantasia osservo un quartiere tutto italiano…si chiama Riviere des Prairies; l’odore dei piatti casalinghi, il sapore del buon vino, le liete cene con familiari e amici, le feste patronali. Come sono stati grandi i nostri antenati per creare tutte queste cose in questa terra qui!  «Signor Franceschini, potrebbe stare attento alla lezione invece di pensare a chissà che cosa?». Uops!, mi sono fatto sorprendere a fantasticare. «Allora, dice il maestro, avete capito gli effetti dell’emigrazione italiana nella nostra società canadese?». E ci invoglia a pensare a tutti quegli italiani che si sono distinti nei vari campi delle attività sociali. Non si possono più contare: politici, industriali, commercianti, professionisti, ingegneri, imprenditori e via di seguito. Tutta gente che ha dato una grande importanza al popolo italiano all’estero. Mentre lui parla la mia fantasia riprende di nuovo il volo; ma questa volta mi porta nel futuro e mi fa vedere già grande. Emigrante del terzo millennio sto portando per mano i miei figli. Sto insegnando loro a camminare sui passi dei nonni perché, anche se la strada sembra vecchia, è ancora ricca di avvenire e di futuro. Andare incontro ai nonni, infatti, vuol dire farli continuare a vivere nelle nostre opere e nelle nostre azioni!».

Su 600 e rotti studenti provenienti da ogni dove il Franceschini vinse il primo premio! Come potete bene immaginare partecipai anch’io alla premiazione e mi recai all’università assieme al nonno del mio studente. Riaccompagnandomi a casa dopo la cerimonia mi fece il seguente discorsetto che vi riporto quasi testualmente: «Tu non puoi mai immaginare, mio caro Giuseppe, che soddisfazione e quanta emozione ho provato quest’oggi fra le mura di questa università. Oh no, non puoi mai capire cosa ho provato nel vedere un mio nipote essere premiato proprio in questo padiglione dell’università dove io ho lavorato da giovane…appena arrivato dall’Italia. Avevo solo 19 anni e ne ho portati e ne ho portati di mattoni e di secchi di calce ai mastri con cui lavoravo a quei tempi. E come mi voleva bene il capo cantiere; quasi ogni fine settimana mi regalava un cartone di sigarette!». Ed io da quel giorno là ricordandomi di quelle parole, dovunque vado e dovunque poso il mio sguardo, mi domado se le strutture che vedo intorno a me non siano anch’esse, tutte quante frutto dell’onesto lavoro di questa lodevole gente nostra che mi onoro di andare descrivendo di tanto in tanto con questa mia penna per l’italianità; rifletteteci anche voi andando in giro per Montreal: la nostra già bella città vi diventerà ancora più bella, la sua gente sempre più accogliente e la nostra stessa italianità vi apparirà più limpida e trasparente…perché ci siamo anche noi ad averla resa e a renderla tale ancora adesso!