samedi 23 avril 2016

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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
L’ABITO DA SPOSA
       Stava finalmente arrivando anche per lei il momento di coronare il suo sogno d’amore con Giuseppe. Mancavano solo alcuni mesi ed era tutta presa dai preparativi necessari affinché quello restasse veramante, nei ricordi del tempo, il giorno più bello della sua vita. E lei, Angela, non pensava ad altro che al suo vestito da sposa…lo conserva ancora adesso, dopo quasi mezzo secolo di vita in due; è un po’ ingiallito, ma nel suo cuore serba ancora  tutto il candore di quel lontano giorno.
       In manifattura, in quell’inizio anni  70, le amiche di lavoro le avevano parlato di una delle sarte di più vasto grido in città: era un po’ caruccia si, ma come cuciva lei non cuciva nessun’altra. Invogliata da quelle disinteressate referenze, la futura sposina si recò nella decantata sartoria e venne accolta con tanto di sorriso e garbatezze di circostanza: fu trattata proprio a guanti bianchi e come nemmeno una principessa poteva essere accolta meglio! Fu la titolare stessa del negozio a mostrarle i vari modelli e le differenti qualità di stoffe a disposizione. Guarda questo e guarda quello, pensa e ripensa, vedi e rivedi, tra tentennamenti, riflesioni e consigli…la scelta dell’abito fu fatta. La sarta le prese le misure e le si fece riempire un formulario di vendita che, naturalmente, le fu fatto pure firmare; nello specifico, Angela avrebbe dato un acconto quello stesso giorno e lasciato un assegno postdatato riscuotibile alcuni giorni prima della consegna, che sarebbe avvenuta qualche settimana prima del grande evento. Intanto dopo una diecina di giorni sarebbe passata per la prima prova e in appresso per altre ancora che sarebbero state fissate di volta in volta. Era stato Giuseppe stesso ad accompagnarla nella Piccola Italia quel giorno lì che le furono prese le misure e fatto firmare il contratto; anzi si era offerto a lasciare un suo assegno personale per pagare il vestito tramite il  proprio conto in banca; ma Angela non glie lo permise perché preferiva farlo con quel gruzzoletto che anch’ella aveva nella sua banca…ed in effetti sarebbe stato anche più giusto così!
       I giorni passavano e con essi  anche la creazione dell’abito andava prendendo sempre più forma e concretezza…visibili naturalmente soltanto ad Angela perché, come risaputo, porta male se lo sposo vede il vestito prima del fatidico giorno dello sposalizio; ed in effetti ad ognuna delle prove di routine la futura sposina si era recata nella boutique accompagnata da Clara, la sua migliore amica che, assieme al marito, le avrebbe fatto pure da testimone di nozze. Qualche settimana prima del grande evento, quando il vestito ormai era già bell’e pronto per la consegna, Angela ricevette una telefonata; ebbe appena il tempo di dire «hello» che subito dall’altra parte del filo le dissero secco: «Ehi, la mia bella sposina, sai una cosa? La cecca che ci hai lasciata non è passata! Se vuoi il vestito, portaci i soldi cash e te lo prendi!», e subito abbassarono la cornetta senza che la poverina potesse chiedere la minima spiegazione a riguardo; e, come si può bene immaginare, tutta sconcertata e mortificata si affrettò a fare presente il sopraggiunto inconveniete al fidanzato. Questi, dal canto suo, cercò di tranquillizzarla dicendole che l’indomani stesso avrebbe fatto un salto in banca per farsi spiegare cosa stesse succedendo. Ed in effetti il giorno dopo appena esposto l’increscioso caso al direttore della succursale, questi subito fece luce sull’accaduto spegandogli: «La tua fidanzata ha sì un conto aperto qui con noi, però non può fare assegni perché è un conto di risparmio!»…adesso sì che la matassa era sbrogliata! Era un giovedì pomeriggio e, siccome i negozi chiudevano alle nove di sera, decise di andare alla sua banca, prendere la somma dovuta e recarsi in sartoria a pagare e chiarire il tutto. E così fece: soldi in tasca ed animo sereno per l’equivoco risolto, vi ci si recò, entrò e gli dissero di passare per l’ufficio; fece come gli era stato detto e si trovò dinanzi a un tipo alto, robusto, dallo sguardo tra lo stupefatto e il minaccioso. «Buona se…» cercò di dire gentilmente; ma subito l’altro gli impedì di continuare: «Ha portato i soldi?»; Giuseppe, mentre li estraeva dalla busta ancora chiusa, provò a spiegare il motivo per cui l’assegno non era passato; ma l’altro si era più concentrato a contare i soldi anziché a prendere in considerazione la sua giustificazione. «Bene, passi in sartoria che le consegnano il vestito!» ingiunse al futuro sposino indicandogli la porta; e mentre Giuseppe stava per varcarla sentenziò: «Attento a fare scherzi la prossima volta, perché non può mai sapere in chi si imbatte!». Sorpreso e quasi incredulo di quella imprevedibile e così umiliante scenata, Giuseppe passò per la sartoria, si fece impacchettare il vestito in modo da non poterlo vedere, perché come già  detto porta male, uscì …e in quella sartoria né vi mise più piede, né la consigliò ad altre persone.

       Angela, che intanto di questa storia non ha mai saputo nulla, il suo abito da sposa lo conserva ancora oggi ed ogni tanto se lo guarda e se lo riguarda, e se lo accarezza e se lo riaccarezza. Ed ogni volta che lei riculla a quel modo i sogni di quei giorni lontani, Giuseppe non può fare a meno di rispolverare in cuor suo il rospo che ha in corpo e si domanda: «Se quel Tizio e Caio ha agito in modo così sconsiderato pure con persone di altre etnie, quale immagine di buona italianità ha potuto lasciare dietro di sé!?». Meno male, comunque, che una rondine non ha mai fatto primavera!         

samedi 9 avril 2016


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

LA CALUNNIA  

       Correvano i tempi in cui Giuseppe attaccava a lavorare alle sei in punto del mattino: immaginate voi a che ora doveva alzarsi. Fortuna che, data l’ora mattutina, con una mezz’oretta ce la faceva a recarsi in fabbrica! Nel reparto di cui era responsabile c’era pure il turno dalle quattro a mezzanotte ed era sua mansione ritirare il lavoro fatto la sera precedente e approntare quello da farsi  dalle operatrici del giorno. Era d’obbligo, quindi, trovarsi lì di buon’ora perché quelle alle sette precise già stavano con i piedi sui pedali delle overlock e non volevano perdere neanche un minuto: lavoravano a cottimo e ogni attimo perso voleva dire qualche soldino in meno sulla busta paga. Cosicché quando arrivavano i “signori delle otto” lui già aveva sulle spalle due ore di lavoro a tamburo battente. Ma, siccome tutto è relativo, sentite questa. Un mattino, verso le otto meno un quarto, se ne arrivò uno ancora sbadigliando e gli occhi pieni di sonno. Giuseppe, indaffarato com’era, non fece caso a salutarlo. “Ehi, -gli fece quello bonariamente- non si dice più buon giorno alla gente la mattina presto?”. Ditemi di grazia, se per quello alle otto era mattina presto, cos’era per Giuseppe alle sei? Una di quelle vere mattine presto, parcheggiando la macchina come d’abitudine, scorse poco lontano alcune delle sue operatrici in preda al panico perché i mariti di due di loro stavano litigando animosamente. Fortunatamente il passaggio di una volante calmò gli animi bollenti ed evitò loro di venire alle mani. Il come e il perché di quella mattutina rissa eccovela spiegata il più brevemente possibile. Due di quelle nobildonne, giorni prima, una parola tira l’altra, vennero alle corte arrivando a darsi, naturalmente, pure l’appellativo di “buone donne”. L’eco di quei poco graditi complimenti giunse all’orecchio dei rispettivi mariti che, non trovando di meglio, scesero in piazza per la resa dei conti.

(Prima di arrivare alla calunnia del titolo, comunque, bisogna premettere qualcos’altro. L’industria tessile in cui il nostro lavorava prima, a causa di una sottoscrizione maggioritaria degli operai in favore di un sindacato, chiuse le porte. Per Giuseppe detta chiusura cadde come una manna dal cielo; infatti trovò  lavoro  dove accadde il fatto della calunnia, appunto,  ma dove aveva avuto pure la fortuna di entrare a far parte dei “signori delle otto”. E non è tutto perché in occasione delle feste natalizie ebbe un’altra piacevole sorpresa. Nel periodo festivo, pur non avendo settimane complete, le paghe risultarono uguali a quelle di ogni altra settimana regolare. Pensando a qualche errore, andò a chiedere spiegazioni e si sentì rispondere: “Tu sei pagato a settimana e devi essere pagato pure per i giorni che siamo chiusi per motivi di festa. Perché dove stavi prima ti tagliavano la paga?”. E in effetti era proprio così: lo avevano fatto fesso, dove stava prima! Ma lasciamo da parte simili quisquilie e cerchiamo di arrivare alla calunnia.)

Intanto in questa nuova fabbrica si trovava fin troppo bene e anche con le sue dipendenti sussistava un clima di ottima intesa e di sincera simpatia. Anzi, alcune di esse le aveva fatte venire lui stesso lì allorché aveva chiuso i battenti l’altra manifattura di calze. Ma in generale era ben voluto e stimato da tutte per il suo fare equo e imparziale: da non dimenticare che anche lì le sue donne lavoravano a cottimo! Eppure ci fu qualcosa che venne a turbare quel raro equilibrio di reciproca simpatia e buona collaborazione. Un mattino, ancor prima di arrivare nel suo reparto, avvertì uno strano brusìo e una certa agitazione in mezzo alle sue operatrici: appena varcata la soglia, però, tornò tutto improvvisamente alla normalità. Fingendo a sua volta di non aver udito niente, salutò come sua abitudine senza distinzione di lingua o di razza: “Buon giorno, Bon jour, Good morning, Kalìmera” e si diresse al suo tavolino. Intanto quella della macchina in fondo a tutte, con l’indice della mano destra sulla bocca, gli fece capire di starsi zitto; poi, roteandolo ripetutamente, gli diede a intendere che gli avrebbe spiegato tutto più tardi. In attesa di quel “più tandi” se ne andò nel reparto tessitura a prendere il lavoro da distribuire durante la giornata. Tornando col carrello pieno incontrò il manager con cui, dopo il “buon giorno” di rito, continuò il cammino insieme. E insieme avvertirono il brusìo sospetto di poco prima. “Ma che hanno stamattina le tue operaie?”, chiese il manager a Giuseppe che rispose: “Boh, anche poc’anzi ho notato una specie di trambusto; ma poi si sono calmate. Vattelappesca cosa passa loro per la testa!”. Cosa passava loro per la testa glie lo fece sapere la donna del dito sulla bocca. Chiamandolo con la scusa della macchina che non andava bene, gli lasciò scivolare un bigliettino tra le mani. Giuseppe non finì nemmeno di leggerlo che subito corse a farlo vedere in direzione. “Ecco svelato il mistero del putiferio di stamattina! Sono proprio io il diretto interessato: leggi qui!”, disse porgendo il bigliettino al suo capo e poi continuò: “Una di quelle streghe ha calunniato quella befana della seconda macchina di avere avuto un figlio da me!”. E tutto impaurito e sconcertato raccontò il fattaccio dei mariti gelosi avvenuto alcuni anni prima dinanzi alla vecchia fabbrica. E, quasi per dare una prova convincente della sua innocenza, concluse: “Mia moglie la conosci anche tu: ti pare possibile che avrei cambiato l’occhio per la coda?”.

       Prima della chiusura dell’azienda il manager si premurò di rassicurarlo: “Ho chiamato a casa della tua “amante” e il marito in persona mi ha confermato  di esserne già al corrente e che sono tutte calunnie mosse alla moglie per gelosia. Perciò torna a casa e dormi a sette cuscini…ché nessuno ti impedirà campare cent’anni e più!”.

mercredi 23 mars 2016


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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)

LA DELUSIONE

       Correvano i tempi in cui l’economia del paese, seppure potesse considerarsi stabile, faceva registrare un’alternanza di alti e bassi, fortunatamente coi primi in leggero vantaggio sui secondi. Nella manifattura di Giuseppe, cioè in quella dove lavorava beninteso, i mesi di massima produzione erano quelli primaverili ed estivi. In autunno avanzato, infatti, già si avvertivano i sintomi delle vacche magre e, vuoi o non vuoi, aveva luogo pure l’increscioso compito di tagliare la monodopera col licenziamento delle pecore nere. In febbraio-marzo la musica cambiava tonalità e, con la ripresa del lavoro, si incrementava il personale con l’assunzione di nuovi elementi e si dava pure un aumento paga ai più meritevoli. Giuseppe, purtroppo, di questo privilegio extra, concesso dalla parte patronale, non ne aveva mai usufruito: si era sempre dovuto accontentare del solo aumento annuale previsto dalla convenzione sindacale.

       Quell’anno lì il lavoro aveva preso la via dell’ascesa addirittura nel mese di gennaio. A lui, intanto, a metà dicembre, quasi inaspettata strenna natalizia, era stato affidato l’incarico di magazziniere dell’azienda. Accettando l’impegno, a dire il vero, lo fece con una certa apprensione in quanto, prima di lui, già due altri prescelti lo avevano abbandonato senza che nessuno ne sapesse il perché. In realtà tenere sotto controllo ere ben sistemata tutta quella roba che entrava e usciva era qualcosa di impegnativo e stressante al tempo stesso. Non è che ci fosse molto da fare lì dentro; ma nelle ore di punta c’era veramente da scervellarsi e sapersi dimenare: dopo di che potevi anche farti un sonnellino…ma guai a te se te lo facevi per davvero! Lui, intanto, ne andava orgoglioso e fiero del posto affidatogli; l’avevano quasi pregato per farglielo accettare: gli avevano detto di aver bisogno di una persona coscienziosa e responsabile! Ne era tanto entusiasta che proprio non riusciva a capire come mai i suoi predecessori l’avessero abbandonato. Tanto per farla breve, lusingato da quell’avanzamento di grado e incoraggiato dal venticello benefico che era tornato in poppa al vascello industriale, fece un pensierino circa l’arrotondamento della sua busta paga. Fino ad allora nessuno aveva avuto qualcosa a ridire sul suo conto, ragion per cui congetturò di essere entrato anche lui nella distinta lista dei “meritevoli”.

       Ed ecco che un bel giorno, appena il manager entrò nel deposito, Giuseppe sparò il suo colpo sperando di centrare il bersaglio. L’alto dirigente intanto, senza farselo dire due volte, subito promise di andarne a parlare in ufficio. Ma, chissà come e chissà perché, erano passate due settimane e dell’aumento non si era visto neanche il colore. “Scusate, signor Alberto, -disse, chiedendo spiegazioni al manager- a proposito di quel mio aumento?!”. E l’altro ribattè: “Oh sta tranquillo! Tra giorni devo partire in viaggio d’affari col padrone: glie ne parlerò una volta fuori con lui!”. Partirono e tornarono, ma nel termometro remunerativo del nostro bravo magazziniere il mercurio non accennava a salire. Un po’ chiedendosi il perché di quella promessa non mantenuta e un po’ deluso al tempo stesso, non demorse. Anzi si propose di fare il tentativo con il padrone in persona. E che male c’era? Chi domanda non fa errori. E, poi, la faccia sarebbe stata mezza ciascuno! Così, appena gli venne fatto, risparò il colpo col proprietario dell’azienda e questi pure, lì per lì, gli diede buone speranze. Solo che qualche giorno dopo se lo vide entrare nel magazzino, lo vide guardare intorno e se lo sentì dire: “Fammi sentire, Joe; dove sono quei rotoli di materiale blu che dovevano partire…”; “Penso che dovrebbero essere -l’interruppe il magazziniere- laggiù in fondo, insieme…”; e l’altro subito lo apostrofò a sua volta: “Innanzitutto non ti pago per pensare! E, poi, come sarebbe a dire dovrebbero? Allora non hai le idee chiare tu qui dentro!”. E Giuseppe, toccato nell’intimo del suo orgoglio, restò lì annichilito senza essere capace di proferire parola. “Non si capisce più niente qui dentro!”, concluse il padrone ridando un’altra occhiata intorno e uscendo.

“Te l’avevo detto che la tua giobba non porta una grossa paga!”, commentò un amico che sapeva e aveva sentito tutto. Giuseppe intuì quale vento avesse scatenato la tempesta e si promise di non chiedere più aumento né a Caio, né a Sempronio; e come per incanto pure il magazzino si rimise magicamente in ordine perché più nessuno ebbe alcunché da obiettare. Quell’incidente gli fece realizzare pure, amara delusione, che la sua non era stata una promozione, bensì un diplomatico ripiego della ditta. Mica potevano mettere ad ammuffire lì dentro un giovanotto; né tantomeno potevano pagare, quasi per niente, un operaio provetto! Ragion per cui avevano optato per uno che, data la veneranda età, pensavano che potesse accontentarsi del minimo indispensabile e soddisfarsi del puro necessario!

mardi 8 mars 2016

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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
LA VACCA NON  DA PIÙ LATTE
       Da quando si sono ritrovati e abitano sulla stessa strada, Albano e Giuseppe non mancano mai, dopo cena, di fare la loro passeggiata serotina. Prendono una boccata d’aria, si tengono informati sull’andamento del circondario e vanno risfogliando il libro dei loro vecchi ricordi di operai. “Ti è mai rivenuta in mente -chiese Giuseppe ad Albano- la manifattura della vacca che non dava più latte?”. E l’amico rispose: “Eccome se me ne ricordo! Fu proprio per colpa di quella mia…bestia immaginaria che persi la giobba!”. Ma ecco come erano andati i fatti. I nostri due amici lavoravano insieme e, quando il lavoro scendeva in picchiata, il portoghese era solito dire ai compagni: “La vacca non da più latte. Preparatevi a partire!”. Infatti, se il calo del lavoro persisteva, c’era da aspettarselo qualche licenziamento. Comunque, anche per non farsi prendere dalla malinconia, ci si scherzava sopra e si cercava di sdrammatizzare il caso come meglio si poteva. Qualcuno se ne usciva dicendo che, secondo la teoria di suo nonno, se le vacche le sai mungere riesci a ricavare latte anche dopo l’ultima goccia. Qualche altro raccontava di quando, in casa, si macinava l’uva per fare il vino. Dopo che fermentava, si metteva a spremere la vinaccia nel torchio. La si toglieva e la si rimetteva a spremere varie volte per ricavarne quanto più vino si poteva. Dopo avercela messa l’ultima volta, la si lasciava riposare tutta la notte e l’indomani, date le ultime strette e recuperate le ultime gocce, con soddisfazione si commentava: “Hai visto? Abbiamo ottenenuto un altro mezzo bicchiere?”.
       Applicando anche detta similitudine alla manifattura in questione, quell’anno la vinaccia dovette essere stata passata al massimo sotto il torchio e la vacca dovette essere stata munta più del dovuto perché sotto la ramazza del repulisti passarono pure alcune teste di serie come Albano, per esempio; Giuseppe, fortunatamente, quella volta se la scampò per un pelo. Sotto cassa integrazione il primo, fedele portavoce il secondo, si telefonavano spesso e l’uno informava l’altro circa ogni mossa aziendale. Una volta Giuseppe comunicò ad Albano che, nonostante la penuria del lavoro, era stato comprato un nuovo macchinario per il reparto impacchettatura; una seconda volta portò a sua conoscenza che, nonostante l’indesiderata ristrettezza economica, nel reparto finizioni era stato rinnovato tutto il settore. Dette notizie erano incoraggianti in quanto lasciavano supporre che, se venivano fatte tutte quelle spese, una ripresa del lavoro non doveva tardare! Albano, dal canto suo, pur cullando in cuore una riassunzione, un colpo d’occhio qua e là lo andava gettando lo stesso, caso mai potesse trovare qualcosa di meglio. Intanto nella manifattura della vacca magra il lavoro si rimise; anzi, riprese con una marcia in più e si registrarono pure nuove assunzioni. E vi sembra che Giuseppe non facesse squillare il telefono in casa di Albano? “Ehi, tieniti pronto che presto ti richiamano: il lavoro si è rimesso e in fabbrica si vedono parecchie facce nuove!”. “E scommetto -commentò Albano a sua volta- che tutte queste facce nuove le retribuiscono pure con giusta mercede: la dovuta minima paga! E no, mio caro. Si dà il caso che abbia trovato anch’io un lavoro più rimunerativo. Che mi chiamino se vogliono: cercherò io pure di mungere la vacca come si deve!”.

       Ma ciò non avvenne mai e fu così che i due compagnoni si persero di vista, fino a dimenticarsi quasi l’uno dell’altro. Ora intanto, vecchierelli di fresco in pensione, si sono ritrovati e sono tornati ad essere i grandi compagnoni per la pelle di una volta. Anzi, dire che sono solo amici è poco. Ecco, infatti, cosa disse Angela a Flavia, la moglie del portoghese con cui stava chiacchierando sul balconato di casa, vedendo i mariti di ritorno da una loro passeggiata serale: “Arrivano, arrivano i due fidanzatini. Ci manca solo che si prendano sotto braccio…i piccioncini!”.

mercredi 24 février 2016

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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
LA VOCE DEL PADRONE           
       Albano, un portoghese vecchio amico di Giuseppe, è molto fiero del suo nome che, a suo dire, gli calza anche a pennello. Tanto per cominciare gli calza a pennello perché, nella sua vita di operaio, non c’è stato mattino che “l’alba” non l’abbia trovato già sveglio. In secondo luogo ne è fiero anche per il fatto che lo porta una delle più rappresentative voci della musica leggera italiana. Avendo toccato questo tasto musicale, Albano, che da giovane è stato per alcuni anni in Italia, si ricorda spesso di quegli antichi dischi con sopra un grammofono e, accovacciato lì a fianco, il più fedele amico dell’uomo che sembrava ascoltarne il suono. Correvano i tempi, infatti, della rinomata casa discografica “La voce del Padrone”.
       Albano e Giuseppe, tempo addietro, hanno lavorato svariati anni per la stessa ditta. In appresso si sono persi di vista, rimanendo amici…nel pensiero. Adesso, però, per un fortuito quanto piacevole caso della vita, si trovano a essere addirittura vicini di casa. E ne rispolverano di ricordi e se ne raccontano di fatterelli vissuti insieme, ora che si sono ritrovati e sono tornati ad essere quei grandi amici di una volta. Come fanno a dimenticare quel particolare episodio di manifattura accaduto in quei giorni in cui si erano appena conosciuti? Giuseppe era vecchio del posto, mentre Albano vi lavorava solo da qualche settimana. E, a dire il vero, l’ambiente gli piaceva pure perché era favorevolmente rimasto impressionato dalla spensieratezza e dall’allegria che regnava in quel luogo. Quel venerdì lì, poi, l’armonia sprizzava da tutti i pori anche perché il fine settimana era alle porte! “Approfittiamone! Approfittiamone adesso: mò che torna il padrone ce la fa finire lui la pacchia!” disse un operaio, quasi invitando alla riflessione o richiamando gli amici all’ordine dovuto. Potevano essere le due e mezza circa allorché una voce, che Albano sentiva per la prima volta, tramite intercome convocava il manager in ufficio. Nell’udirla ammutolirono tutti. E, guardandosi l’un l’altro in faccia, sembravano chiedersi: “Ma non doveva tornare la settimana prossima?”. “Hai visto cosa è capace di farti la voce del padrone? -disse Giuseppe ad Albano che era rimasto sorpreso da quell’improvviso cambiamento di atmosfera- Aspetta solo che arrivi qui di persona e…vedrai l’aria tremare!”. Non trascorse nemmeno una mezz’oretta che dal reparto vicino arrivarono voci di persone che si aggirava per la manifattura. Meno male che la fabbrica aveva diversi locali e il padrone una voce poderosa: nell’udirla, infatti, parecchi topi che in sua assenza si erano preso il lusso di ballare ritornarono ipso facto nei propri ranghi…a dare l’impressione di essere quei bravi operai della messe che rendono possibile il buon raccolto! Una volta giunti nel reparto dei nostri amici, il manager andava rendendo conto al padrone di quello che succedeva, man mano che questi chiedeva spiegazioni a riguardo di questo o di quello. L’unico nuovo del posto era Albano. Il datore di lavoro, avvicinandosi, si fermò per qualche attimo a osservarlo; dopo di che, pollice recto in segno di approvazione: “Very good, very good!” esclamò e passò oltre.

       Che motivo avevano, quegli operai lì, a lamentarsi della sua severità? Non faceva altro che badare ai propri interessi e non aveva tutti i torti a difendere i suoi diritti. A essere sinceri, se avesse visto i suoi “topi ballare”, non avrebbe avuto ragione a tirar fuori le unghia? E poi, diciamoci la verità, non sono “mazze e panelli a fare i figli belli”? Ci siamo mai resi conto che, se un proprietario di azienda mantiene il pugno fermo sul suo vascello industriale, pure il suo equipaggio può sbarcare il lunario con minori grattacapi? Ecco, un operaio entra in fabbrica, fa le sue otto ore e se ne torna a casa libero e spensierato. Ma chi deve approntargli il lavoro pure per l’indomani, può dormire ugualmente a sette cuscini? Dopo avere spezzato tutte queste lance in favore della parte patronale, Albano osservò: “Vedi Giuseppe, abitualmente diciamo di essere noi operai a lavorare per i nostri padroni; invece mi sa che sono loro a lavorare per noi!”. “E sì, mio caro Albano, forse dovremmo rispettarla di più la voce del padrone. È simbolo garante di pane e lavoro. È custode fedele di successo e benessere…per chi comanda e per chi deve ubbidire!”, rispose Giuseppe a conclusione di una di quelle tante chiacchierata che riportava loro il passato alla mente.

lundi 8 février 2016

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(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore
LA CARITÀ  PELOSA  
       Correvano i tempi in cui Giuseppe dimorava nella cittadina di San Leonardo, allorché questa era scherzosamente chiamata la città di quelli che si grattavano la testa. Abbiamo detto “grattavano”, cioè all’imperfetto, perché…valli a toccare oggi quelli lì! La casa in cui stava in affitto si trovava sul lato sud di una stradina a forma di ferro di cavallo. Quelli che la abitavano si conoscevano tutti e tra loro sussistevano anche ottimi rapporti di amicizia…pettegolezzi e dicerie di comari a parte! Il loro tenore di vita ti faceva sembrare di stare in Italia: in uno di quei tipici vicoletti di paese. Seduti dinanzi alle case si chiacchierava, ci si prendeva il caffè e si trascorrevano liete serate sotto le stelle. Tra la famiglia di Giuseppe e quella di un dirimpettaio, poi, si era venuta a creare una tale relazione che, più che amici, sembravano parenti. “Ah Pè, -gli faceva a volte l’amico di fronte- vieni qui con Angela che ci facciamo una partita a carte!”. E, specialmente nei week-end invernali, se ne facevano di cenette e di partite a carte insieme. Spesso vi prendeva parte pure Raffaele, un cognato del vicino. Raffaele era sì una brava persona, ma pure uno di quelli che anche quando parlano devono sempre “far carte” loro. In compenso, però, sapeva farsi ascoltare e parlava con buona favella e tanta umanità. Giuseppe cominciò a considerarlo una persona corretta da quando raccontò di quella lontana volta che era rimasto senza lavoro, e nemmeno a farlo apposta, proprio quando aveva appena comprato la sua prima casetta. “Voi non sapete -diceva fra l’altro- che pena demoralizzante per me, vedere mia moglie andarsene ogni mattina al lavoro e io dovermene restare lì in casa perché non mi era possibile trovare nemmeno una mezza giobba dove guadagnare qualcosa!”. E sottolineava pure che, se fosse stato lui un datore di lavoro, sarebbe stato molto generoso con la povera gente.
       In appresso Giuseppe cambiò casa, i suoi amici non li frequentò più tanto spesso come prima e il loro parente, se ebbe modo di rivederlo, fu solo per motivi di festa o per ragioni di lutto. Un tempo il nostro Peppe, quando lavorava come capospedizioniere in una grande fabbrica di Montreal, fece amicizia con un certo Johny, un loro abituale fornitore. Parla oggi e parla domani, un bel giorno questo benedetto Johny non si fece scappare il nome del suo socio in affari? “Fammi sentire un po’, -chiese subito Giuseppe nell’udire quel nome- questo tuo socio Ralph non è, per caso, uno alto, robusto, dalla buona parlantina e che risponde al cognome di Tal dei Tali?”. “Ma sì, è lui. -rispose l’altro- Perché lo conosci?”. “Se lo conosco?! –confermò Giuseppe- Ce ne siamo fatte di partite a carte insieme. Salutamelo e dagli una forte stretta di mano da parte mia!”. Ma tu guarda solo come è piccolo il mondo e come vanno a finire certe cose della vita. Ricordandosi di quel suo vecchio amico, Giuseppe si compiacque per lui soprattutto per il successo che aveva fatto. Era così bravo, sensibile, generoso che la soddisfazione di essere divenuto uomo d’affari se la meritava davvero; meglio a lui, che era un amico, quella fortuna anziché a un altro. E poi, aveva così sofferto, appena arrivato dall’Italia, il poveretto!
       Col passar del tempo la manifattura dove lavorava Giuseppe chiuse i battenti e fu la sua volta di trovarsi in mezzo a una strada…si fa per dire perché in quale famiglia di emigranti, dopo tanti anni di America, non c’è di che poter vivere discretamente? E poi, mica non li aveva pagati pure lui i contributi alla cassa integrazione! Non ne valeva, quindi, la pena sfruttare un po’ anche il governo? Lo facevano tanti quasi per abitudine! In ogni modo a quale italiano di buona volontà piace restarsene a casa senza far niente? Perciò, la domanda alla cassa integrazione la fece sì, ma subito si mise in cerca di un altro lavoro. Intanto, gira di qua e gira di là, forse per l’età o forse per scalogna, vedeva chiudersi le porte prima ancora che gli venissero aperte. Fu la moglie Angela ad aprire uno spiraglio di luce nella confusione dei suoi pensieri. “Perché non vai a trovare i tuoi amici Johny e Ralph?” gli disse un giorno che lo vide particolarmente abbattuto. Ehi, ma come aveva fatto a non pensarci prima? Ci andò e appena Ralph se lo vide davanti lo abbracciò forte forte, gli diede un paio di amichevoli manate sulla spalla e disse: “Eh sì, mio caro Peppe, è stato un duro colpo anche per noi la chiusura della vostra fabbrica. Il tuo padrone era uno dei nostri migliori clienti!”. E Johny, che si era recato pure lui a salutarlo, aggiunse: “Per quello che è successo a voi, la nostra produzione è diminuita di un quarto e forse più!”. Finiti i convenevoli di rito, il nostro subito fece presente che si era recato da loro perché era in cerca di lavoro. “Ma senza dubbio, vai a fare l’applicazione in ufficio e vedremo cosa potremo fare per te!”, gli disse Ralph con fare entusiasta e promettente. “Ma si , vai vai pure. -soggiunse Johny- La nostra segretaria è Laura; tu la conosci: ha lavorato pure da voi!”. E fu appunto Laura, dopo essersi salutati da buoni e vecchi amici, a riempire la sua domanda d’impiego. “Ecco, -disse dopo avergli fatto firmare il formulario- la tua richiesta la metto qui, sopra sopra: in assoluta priorità. Se c’è qualcosa, sarò proprio io a chiamarti!”. Nell’andarsene, tra il sorpreso e il deluso, Giuseppe pensò: “Ma, se mi conoscono, perché sono ricorsi a tutte queste formalità? Non me la potevano dare subito una risposta?”. Passarono parecchie settimane e di chiamate non se ne sentì neanche l’eco. Un altro lavoro lo trovò ugualmente e il trio dei vecchi amici ritornò nel dimenticatoio.

       Tempo dopo, andando con sua moglie per degli acquisti alle Galleries d’Anjou, incontrarono gli amici della famosa strada a ferro di cavallo? “Un tipo veramente generoso, il tuo caro cognato Raffaele. -si sfogò con l’amico, mentre le mogli parlavano d’altro- Ero senza lavoro; sono andato da lui e mi ha fatto…fesso e contento!”. “E a chi lo dici, mio caro Peppe? -confermò l’altro, continuando ironicamente- Quello ormai è diventato un pezzo grosso. Non hai notato che adesso si fa chiamare Ralph, all’inglese? È diventato grande pure di nome. Capisci, mio caro don Peppino?”. E a don Peppino non restò che fare, purtroppo, un’amara considerazione: “È proprio vero che il sazio non crede al digiuno, A questo punto, però, è meglio essere poveri e rispettare il prossimo, anziché avere il portafoglio pieno e voltare le spalle agli amici!”.

vendredi 29 janvier 2016

ANCHE  QUESTA  È  AMERICA ©
(I racconti di Giuseppe scritti dal Maestro Cuore
DALLO CHALET DI FRONTE
       Giuseppe lo sapeva già da qualche mese che la sua fabbrica, quel venerdì, sarebbe rimasta chiusa. Alcuni giorni prima pure sua moglie si trovò, strano ma vero, ad avere la giornata libera. Fu più che logico e prevedibile, allora, progettare per quell’inatteso e lungo fine settimana una capatina in campagna, al loro chalet sul lago.  Fu gioia grande soprattutto per i loro due figli: dieci anni lei, la femminuccia e otto lui, il maschietto. A mettere la ciliegina sulla torta intervennero radio e televisione che annunziavano bel tempo sulla bella provincia per tutta la settimana, week-end compreso. Il giovedì sera, però, tornando dal lavoro mezza moscia e avvilita, mamma Angela comunicò al marito che l’indomani, purtroppo, avrebbe dovuto lavorare come di consuetudine. “Per questa sera –suggerì Giuseppe- non diciamo niente ai ragazzi. Ci penserò io domani mattina a inventarmi una buona scusa!”.
       Tempo addietro un suo vecchio amico di nome Franco gli aveva detto di possedere uno chalet in montagna. Un posto fantastico tra il verde della natura da cui potevi dominare tutta la vallata sottostante. La veduta del laghetto laggiù, poi, era meravigliosa con tutte quelle casette di campagna che, costeggiando la riva, rendevano più caratteristico il panorama. E i tramonti? Erano incantevoli! Il sole rosseggiante si specchiava nell’acqua mentre l’avanzare cadenzato di qualche pedalò ti accompagnava nella calma della sera. Anche se alle pendici del monte aveva un accesso privato per portarsi alla spiaggetta tutta sua in riva al lago, Franco si era munito di una grande piscina sul retro della casa su in montagna per non scendere e salire troppo sovente per andarsi a bagnare nel lago.
       Così quel venerdì mattina, quando i ragazzi si alzarono, il padre disse loro: “Adesso papà telefona a quel suo amico che ha uno chelet in campagna e, se lui è disposto, andiamo a trascorrere la giornata lì. Voi potrete giocare con i  suoi figli che hanno la vostra stessa età!”. “E la mamma?”, chiese il figlio non vedendola. Ed egli spiegò: “Visto che è dovuta andare a lavorare, la chiameremo più tardi e le diremo dove siamo!”. Detto questo chiamò subito l’amico, che accettò di buon grado la sua proposta. Una volta sull’autostrada, seguendo l’amico in macchina, Giuseppe più andavano avanti e più si rendeva conto che stavano percorrendo la stessa via che
faceva lui per recarsi alla sua casetta sul lago. Infatti solo l’ultimo tratto, quello che porta alla sommità del monte, non era lo stesso. Appena uscirono dalle macchine, la prima cosa che fece Giuseppe fu quella di andare a dare un’occhiata da quell’altura. “Ehi ragazzi, venite a vedere!” esclamò chiamando i figli. “Ehi pa’, ma quello è il nostro chalet!” proruppe il maschieto, mentre la sorella confermava: “Ma sì è vero; è la nostra casetta sul lago quella lì!”. Al che Franco soggiunse: “Ma senti un po’ quelli. E chi l’avrebbe mai detto? Tutti e due uno chalet da queste parti!”.
       Mentre erano tutti nella piscina, papà Joe non resistette alla tentazione di andarsi a godere la panoramica sottostante. Anzi andò a prendere il binocolo in macchina per scandagliare anche i punti più lontani. Spaziando qua e là lo puntò pure sullo spiazzale antistante il suo chalet…e lo focalizzò a distanza ravvicinata perché voleva essere certo di non stare sognando, ma di vederci ben chiaro. Staccò lo sgardo dall’inaspettata scena, si diede una scrollatina di testa per riprendersi dallo choc e…ritornò a guardare giù per accertarsi meglio di quanto stava accadendo. Sì, era proprio lei, Angela; e quello sulla sdraio appiccicata alla sua era proprio lui, il proprietario dello chalet vicino. “Altro che lavoro!”, pensò tra sé e sé. Cercò di riprendersi dallo stordimento per non destare sospetti e, come se niente fosse, raggiunse i bagnanti in piscina. A pomeriggio fatto la moglie di Franco propose di andare a “farsi belli” per la serata. Infatti sarebbero scesi tutti giù per un BBQ da Giuseppe, quasi come ringraziamento per l’ospitalità ricevuta. Prima dell’ora di chiusura delle fabbriche la figlia chiamò mamma Angela al cellulare e, tutta felice e contenta le comunicò: “Mamma, quando stacchi dal lavoro vienici a raggiungere subito qui in campagna. Siamo nelle vicinanze con degli amici di papà. Chi prima arriva comincia a preparare: facciamo il BBQ stasera!”. A quel punto, per previggenza, Giuseppe propose: “Facciamo una cosa. Io me ne scendo adesso e comincio ad approntare in attesa che arrivi la mamma. Voi ve ne venite giù tutti insieme più tardi!”. E detto questo partì. Dopo aver parcheggiato scese dalla macchina sbattendo la portiera, quasi per avvertire del suo arrivo; infatti non aveva nessuna intenzione di sorprendere la moglie col vicino. E ci riuscì perché, mentre attraversava il viottolo che dalla strada porta allo chalet, avvertì un certo trambusto e un frettoloso darsi da fare, quasi a cancellare ogni “traccia di delitto”. Sbucando all’angolo della casa scorse ugualmente il dileguarsi del vicino oltre la siepe che separa i due terreni. Angela intanto, fingendo di uscire proprio in quel momento, gli  sorrise dolcemente e gli corse incontro per ricevere il suo bacio in fronte come faceva sin dal primo giorno della loro vita in due.
       Fu una volta entrati dentro che lui le chiese: “Cosa aveva l’amico accanto da scappar via come un ladro?  Mica me lo mangiavo io se lo trovavo qui!”. E mentre lei leggermente arrossiva continuò: “La vedi quella casetta lassù? È lo chalet dei miei amici dove siamo stati oggi!”. Intuendo di essere stata scoperta, prendendogli le mani e guardandolo fisso negli occhi, candidamente confessò: “Se ti dicessi che non abbiamo fatto nulla di male, mi crederesti? È stata una piccola debolezza senza conseguenze. Ti prometto che non succederà più!”. Per tutta risposta, lui le cinse la vita, la tirò forte forte a sé e le diede un bacio sulla bocca in segno di perdono.

Allorché tutti stavano ormai prendendo posto per la cena, Giuseppe sussurrò a mezza voce ad Angela: “Perché non chiamare anche loro, i vicini? pare che pure l’amicizia, al pari della fedeltà coniugale, va rispettata e coltivata?”.