vendredi 3 octobre 2014


GENTE NOSTRA

La testimonianza pro italianità che vi ho dato in lettura nel mio ultimo articolo potrebbe anche essere data per scontata in quanto  il suo protagonista era un emigrante di prima generazione; ragion per cui è normale che il suo sentirsi italiano è una questione di dna. La testimonianza della mia presente chiacchierata, invece, ha come attori principali una giovane coppia di terza generazione che, incredibile ma vero, vivono in famiglia una italianità da non credere; e se ve ne parlo è proprio perché li ritengo un esempio da seguire! Abito in un quartiere centrale di Rivière des Prairies su di una strada alquanto movimentata; sul retro fino a sei o sette anni fa c’era un vasto terreno  incolto dove ora invece si può godere la vista di un bel quartiere residenziale, con al centro un vasto parco da giochi per bambini. Eh sì, quest’area ricreativa per i piccini ci voleva proprio perché i neo residenti della zona sono, per lo più,  giovani coppie che vanno mettendo su famiglia. Abito al terzo piano di un condomio e dalla mia spaziosa terrazza ho potuto seguire passo dopo passo le varie fasi della costruzione e la successiva presa di possesso delle abitazioni da parte dei proprietari.  Le case confinanti col terreno del condomio sono state le prime ad essere abitate e sin dai primi giorni sono rimasto ammirato dal fare spigliato e socievole di una giovane ragazza nostra nuova dirimpettaia. “Quella coppia deve essere di origine italiana” dissi con mia moglie a quei tempi e…non mi sbagliavo perché, infatti, anche lì di fronte a noi  l’italianità la fa da padrona! Un pomeriggio, tornando dal lavoro, trovai mia moglie che parlava confidenzialmente  con la nuova vicina. “Già hai fatto breccia tra i nuovi arrivati!” le feci ironicamente; «È lei che mi ha salutato per prima ed io ho risposto. È figlia di italiani ed è una brava ragazza!»…e, quindi, rifiutare una simile amicizia sarebbe stato un vero e proprio peccato.

Intanto, stando anche ad una vecchia canzone, gli anni son passati, i bimbi son cresciuti e pure noi siamo tutti un pò invecchiati. Quello che è più bello però è che la zona si è arricchita di armonia infantile e pure il parco al centro del caseggiato adesso ha gli assidui frequentatori dei suoi giochi. Ed anche noi, dulcis in fundo, se prima parlavamo solo con Caterina e col marito, ora abbiamo pure i loro radiosi figlioletti Alessandro e Roberto, a mandarci il loro: «Ciao Lina, come stai? Dove sta Peppino?»…e tutto e sempre in perfetta lingua italiana, perché è questo il sine qua non di questa mia chiacchierata. La nostra giovane vicina con i figli e col marito non l’ho mai sentita parlare in francese o in inglese, ma soltanto in italiano: un’italiano così perfetto che non ho mai avuto il coraggio di parlarle dei corsi del Picai; spesso tra me e me penso e rifletto che, se io sono un semplice insegnante di italiano, lei può essere considerata addiritura una maestra di italianità!  Con i  vicini italiani comunque lo parlano l’inglese; ma pure con loro spesso e volentieri li sento utilizzare la madre lingua dei genitori. Un giorno mia moglie le chiese con soddisfatta ammirazione il perché parlasse solo in italiano con i suoi figli; e lei rispose che il francese e l’inglese avevano modo di impararlo a scuola e che intanto era suo dovere impartire loro, almeno in casa, un’educazione tutta all’italiana. Ho sentito un giorno alla radio che già nella scelta dei nostri nomi di battesimo c’è qualcosa del nostro carattere e delle nostre inclinazioni. Ebbene, questa giovane mamma, che in famiglia prova gusto ad esprimersi in italiano, non si chiama Caterina? E santa Caterina non è, guarda caso, la patrona d’Italia? Voglio anche aggiungere che mi sento particolarmente orgoglioso quando in quelle nuove abitazioni lì di fronte al mio condominio  arrivano i nonnini di questi italo fanciulletti a valorizzare ancor più la nostra cultura e le nostre tradizioni. Prima di pubblicare quest’articolo ho telefonato a Caterina per chiederle il permesso di parlare di lei nel mio blog. E, parlando parlando, sapete cosa sono venuto a sapere? Che il nome di suo marito è Ricardo, con una sola «c» perché è nato in Argentina da papà spagnolo e mamma italiana: un altro punto a vantaggio della sua e nostra accattivante italianità, dunque. Non penso, tutto sommato, che questa giovane coppia sia la rara mosca bianca, né l’unica rondine che non fa primavera; ce ne saranno eccome sull’isola di Montreal altri italiani di terza e quarta generazione a sentirsi fieri di dare atto del loro spirito di appartenenza applicandolo con convinzione alla loro duplice identità di italocanadesi.

Detto questo mi sento quasi in dovere di affermare con certezza che il nostro idioma avrà ancora lunga vita: tanti passi ancora da muovere e tanta strada ancora da fare. Se qualcuno non è d’accordo con me, non me lo dica aggi che non condivide le mie idee; venga a dirmelo fra un migliaio d’anni…tutti quegli stessi anni che ci son voluti alla madre lingua latina per trasformarsi in francese, spagnolo, italiano ed altro ancora; perché il cammino del tempo e delle cose non è nel restare quelle che sono, ma nel loro trasformarsi lento e continuo!

vendredi 19 septembre 2014


GENTE NOSTRA

«Settembre poi verrà e sulla spiaggia più niente resterà», ma si riempiranno di gioia e di armonia le aule delle scuole, i loro corridoi e cortili, nonché tutte le vie d’intorno; in ogni quartiere della grande Montreal si sentirà echeggiare il dolce sì che suona. Romanticismo e reminiscenze scolastiche a parte, si sono riaperte le scuole di lingua e cultura italiana del sabato mattina, gestite dal Picai. Furono volute, nel 1958, da Mons. Cimichella per garantire un futuro alla nostra lingua; e questa continuerà il suo cammino nel tempo così come lo ha sempre fatto nel passato, nonostante gli immancabili scettici e i soliti insoddisfatti brontoloni che se è bianco dicono nero e viceversa. A loro dispetto e a nostro vantaggio, la parlata della Divina Commedia, dei Promessi Sposi e del Gattopardo qui da noi si trasformerà in italianese, italiese, italiense che dir si voglia…ma sfiderà il tempo e le sue intemperie così come già fu e così come ancor sempre sarà; resterà una lingua in continuo cammino nel suo essere e nel suo divenire, a somiglianza di ogni altra creatura vivente che cambia e si trasforma pur restando sempre sé stessa. A garantire questo suo processo lento e continuo c’è gente, di ieri e di oggi, a dare buone speranze in merito. Eccovi per ora qualcuno di ieri, la prossima volta vi parlerò di qualcuno di oggi.

Accennavo prima a Mons. Cimichella; ebbene una volta parlò di suo padre come uno di quelli che provano il gusto di essere italiani e che scelse per i suoi figli una scuola dove c’era la possibilità di apprendere questa lingua. E lui stesso degno figlio di tanto padre, divenuto grande ed ancora semplice sacerdote, pensò di istituire le scuole del sabato mattina per permettere un familiare dialogo tra i genitori e i loro figli che il giorno frequentavano la scuola nelle lingue locali. Personalmente è già da 21 anni che insegno per conto del Picai e spesso sono stato convocato pure per la giornata delle iscrizioni. In quei giorni lì ho avuto modo di conoscere un altro grande esempio di italianità che, anno dopo anno ho sempre più ammirato per il suo alto spirito Patrio, nonché per il suo attaccamento e rispetto per la nostra madre lingua. Arrivava sempre verso l’ultima mezz’ora delle iscrizioni; se c’era gente si metteva in un angolino ed aspettava; quando non c’era più nessuno si avvicinava, iscriveva chi doveva iscrivere e poi si intratteneva a parlare con noi insegnanti e col direttore. Seduto davanti a noi si informava circa l’andamento dei corsi del sabato; esprimeva i suoi pareri, i suoi pro ed i suoi contro; dava anche dei consigli, ma soprattutto si rammaricava per quelle famiglie che non prendevano a cuore la causa del sabato mattina…che per lui rappresenta una priorità nel volere affidare il passato al futuro consegnando oggi il testimone in questa nostra staffetta culturale. E non è mai mancato a nessun incontro con gli insegnanti e non ha mai mancato uno spettacolo di fine anno scolastico dove è sempre stato presente anche con sua moglie. E se questo non è un convincente modello di italianità…che cos’è? Durante i miei anni di insegnamento ho avuto sui miei banchi di scuola ben tre delle sue quattro figlie e tutte e tre sono state delle studentesse diligenti e ben motivate: ricordo di aver pubblicato, a suo tempo sull’Insieme, molte loro cose scritte che ora si possono consultare sul sito web del Picai nella pagina del Sabatino. E non è finita qui perché proprio l’anno scorso ho avuto nella mia classe una sua nipotina e in qualche classe delle elementari c’era anche una sorellina di questa; e spesso ad accompagnarle a scuola il mattino e a venirle a riprendere a mezzogiorno era ancora nonno  Cosimo Tropiano.

Dopo questo sprazzo di luce tutta tricolore, potrei anche fermarmi qui; ma mi sembra doveroso e giusto continuare per presentarvelo meglio dicendo qualcosa anche sulla sua vita di emigrante. Nato a Superiora Salve, in provincia di Reggio Calabria; il  18 settembre del 1971, nella chiesa di Porto Salvo, si sposava con Maria Gullone, nata a Siderna Marina sempre in provincia di Reggio Calabria. Il  9 aprile del 1972 emigravano a Montreal dove vi giungevano con un volo della compagnia di bandiera Alitalia. Nel corso della sua vita emigrante Cosimo si  è guadagnato onostamente il suo pane quotidiano, come tanti altri italiani emigrati a Montreal in quegli anni di boom migratorio, nella Eastern Code Paper. Permettetemi di terminare con una nota gioiosa che è risuonata in casa sua il 6 settembre scorso. Alcune settimane fa, via e-mail chiesi a Cinzia, la sua ultima figlia che ho avuto sui miei banchi di scuola a suo tempo, delle informazioni su suo padre per poter mettere giù quest’articolo; non avendo ricevuto risposta, dopo alcuni giorni le chiedevo spiegazioni circa il suo silenzio; mi rispondeva dicendomi: «Non sono in Canada» e mi dava il numero di telefono di casa sua…senza dirmi il motivo della sua assenza da Montreal. Dopo qualche giorno un’altra mia ex alunna, sua amica, mi manda su face book le foto dello…sposalizio di Cinzia Tropiano che, quindi, era fuori  i confini nazionali  per trascorrere la sua luna di miele!  Congratulazioni Cinzia e Chad: che la contentezza di questi momenti accompagni ogni passo del vostro cammino in due, che vi auguro lungo e sereno! E non mancare di essere una maestra di italianità a somiglianza di tuo padre.

 

 

 

 

 

 

 

mercredi 3 septembre 2014


AVE  CESARE

Mi diceva una volta una persona di straordinaria saggezza che il vero valore di un regalo non è tanto nella sua utilità o nel bisogno che ne hai, bensì nel fatto che ti fa realizzare di quanto sei ben voluto ed apprezzato; ed è appunto questo che te lo rende caro e prezioso. Detto questo, ad ogni ricorrenza ricordevole mia figlia non manca mai di farmi regali culturali o «scolastici»; ho virgolettato scolastici perché non alludevo alla corrente filosofica medioevale, ma semplicemente alla loro utilità per la mia professione di insegnante. Tempo fa mi regalò un libro intitolato «Rome, de ses origines à la capitale d’Italie»; l’ultimo capitolo di detto libro, che tratta «l’eritage de Rome au Quebec»,  l’ho trovato abbastanza interessante perché mette in risalto il modo in cui l’antico impero abbia condizionato pure la vita socio-culturale della Bella Provincia che ci ospita; ed è appunto per questo che ho deciso di parlarvene.

Eccovi allora per sommi capi quel che ho letto. Sono tre le città del continente antico che hanno dettato leggi nella società quebecchese: Londra, Parigi e Roma…per le ovvie ragione che noi tutti emigranti ben conosciamo. Per quanto riguarda quest’ultima, la sua influenza l’ha esercitata sia come capitale dell’impero romano, che come centro del cristianesimo; sia come caput mundi, che come Urbi et Orbi; sia come antica Roma, che come Roma pontificale. Da sottolineare che è proprio questa seconda a traghettare la prima sulle onde dell’andar dei secoli. Il retaggio romano in nordamerica si è materializzato attraverso vestigia architettoniche, come pure tramite concetti e terminologie legate alle istituzioni del suo impero: forum, arena, colisée. Comunque sono tre gli assi che hanno fatto da collegamento in uno scambio interculturale Roma-Quebec: l’educazione, la cultura giuridica e il sentimento religioso. Già nel 1600 le comunità religiose indirizzavano i loro alunni agli studi classici e all’apprendimento del greco e del latino: il greco come concezione del pensiero e della scienza, il latino come concezione dell’ordine giuridico e il cristianesimo come concezione di Dio e dell’uomo. Gli studi classici garantivano pure un metodo ben presciso nell’agire e una continuità e costanza nelle idee. Per quanto riguarda la cultura giuridica, un movimento di idee politiche, prefiguranti gli stati moderni, prende vita nella metà dell’800. Anche le grandi correnti che vi si annidano: liberalismo, nazionalismo, socialismo ed altre, trovano una solida base nella concezione romana della legge. La comprensione di detta concezione, che nella sua evoluzione viene ad interessare pure il Quebec, può essere acquisita solo attraverso la conoscenza stessa delle istituzioni del diritto romano. Il concetto religioso, infine, è quello che ha marcato maggiormente la presenza di Roma un pò dovunque nel mondo sia per l’apostolato dei padri missionari, e grazie pure agli emigranti che questo intimo sentimento l’hanno portato in tutte le terre dove sono andati a costruirsi un avvenire.

Ecco fatto, la città dei sette colli, che su nel tempo aveva allungato la sua mano a toccare ogni terra allora conosciuta, oggi giorno sembra allungare il suo zampino, quasi come virtuale rivincita, anche su queste terre d’America che, in suddetti giorni, erano «inesistenti» alla visuale umana. In questo mondo, oltre ogni dire sempre più globalizzato, le aquile romane sembrano aver raggiunto in volo ed essere venute a prendere sotto le loro ali protettrici pure i potenti e gloriosi Stati Uniti d’America! No, non sto dando i numeri: è la pura e semplice realtà dei fatti che, purtroppo, passa quasi inosservata a tutti in quanto viene considerata come scontata e del tutto in sintonia con l’andar dei tempi e delle vicende umane. Se continuate a leggermi capirete dove voglio andare a parare. Nel mese di agosto siamo stati per qualche settimana ad Atlantic City ed ho alloggiato in una suite dello Sheraton Hotel: quello in cui tutto parla di Miss America e dalla A alla Z di questo evento annuale! E ne ho viste di dette celesti creature, dalla prima all’ultima, che dalle loro nicchie illuminate mandano sorrisi di soddisfazione; là proprio nel piazzale davanti all’entrata il primo organizzatore della kermesse che, con la corona in mano, invita il gentil sesso a “sognarsi” miss America e farsi scattare una foto con lui. E non vi dico il sorpreso entusiasmo di mia moglie e mia figlia allorché, toccando con la testa la corona, partiva un canto: «Here you are…Miss America». A parte quest’inciso, saliamo in camera al 15mo piano, disfaciamo le valige, ci mettiamo a nostro agio; mi affaccio alla finestra e, udite udite, subito esclamo: “Ave Cesare!”. E sì, ero andato lì anche per togliermi lo sfizio di lasciare qualche soldino nel casinò dei “Caesars”, ma non mi aspettavo che me lo sarei trovato lì dinanzi a me a primo colpo; intanto il saluto glie lo rivolgevo ben volentieri la mattina alzandomi e la sera andando a nanna. Di ritorno a Montreal ho decantato la suddetta imponenza romana lì vista con amici di lavoro ed uno mi ha fatto: “Eh, si vede, mio caro Joe che non hai ancora visto il “Caesars” di Las Vegas! Quello sì che ti mette paura”.

A questo punto penso sia giunto l’ora di scoprire la morale della favola. Gli imperatori romani, non avendo potuto conquistare le Americhe perché a quei tempi non si trovavano ancora sulle cartine geografiche, lo stanno facendo ora in maniera del tutto moderna e consona alle odierne mentalità. Non stanno più sottomettendo i popoli con le armi, ma lo stanno facendo semplicemente invitando le genti a dare i loro tributi all’SPQR con volontaria euforia nelle moderne sedi delle gabelle, meglio conosciute col nome di casinò. Grande Roma; da educatore dell’italianità mi associo ad Antonelli Venditti per dirti  anch’io «grazie Roma» …città eterna!

dimanche 27 juillet 2014


 

ICI METROPOLI

Cari amici, ma soprattutto cari giovani, dove c’è italianità lì c’è pure la mia penna; quando poi questa  italianità sprizza gioventù da tutti i pori, ecco lì la mia penna a mettere subito nero su bianco. Vi è mai capitato di perdere di vista un conoscente e ritrovarvelo, dopo un pò, improvvisamente davanti? E, magari, realizzate pure che era sempre stato nelle vostre vicinanze e non lo sapevate! Da tempo mi chiedevo dove fosse finito quel  bravo giornalista che noi tutti indistintamente abbiamo conosciuto attraverso la stampa scritta, parlata e vista e che risponde al nome di Marco Luciani Castiglia. Ebbene, non me lo sono «trovato» inaspettatamente davanti venerdì 11 luglio scorso? E poi dicono che il venerdì porta male! Ciao Marco, ora che ti ho ritrovato non ti lascerò più; anzi, ne approfitto per far conoscere la tua nuova sede anche ai lettori di questo mio angoletto virtuale affinché si rendano conto di ciò che vai facendo in favore della nostra italianità in generale e della nostra dinamica gioventù in particolare.

Un mio figlioccio di battesimo è uno di quelli a cui la musica «ha dato in testa» sin da piccolo e, adesso, come fai a togliergli quella botta dalla testa? «Patino –mi ha detto via telefono qualche settimana fa- venerdì 11 luglio metti la televisione sul canale 16 ché mi fanno un’intervista!». Detto fatto; mi sintonizzo sul canale 16, che pensavo avesse trasmesso in inglese o in francese, e non mi trovo dinanzi  Marco Luciani a presentare la sua e nostra «Metropoli» su ICI Montreal per dare spazio agli eventi della nostra comunità, nonché per promuovere i nostri giovani talenti? Aprendo una parentesi: che bellezza RaiItalia...ma quando è troppo è troppo! Nessuno forse ci fa caso ma, a quanto sembra, tenendoci vicini all’Italia di lì, ci allontana da quella di qui; cerchiamo di non darci la zappa sui piedi perché, secondo me, per noi italoCANADESI  anche questo fa parte di quella esterofilia cronica decantata da Toto Cutugno in una sua canzone. A parentesi chiusa, miei cari quattro lettori ogni mercoledì, giovedì e venerdi pomeriggio andatevi ad aggiornare sulle attività comunitarie ed a rimirare tutto quel  pò-pò di gioventù che riempie di argento vivo la grande Montreal. Da parte mia vengo a sintetizzarvi due interviste di quel giorno lì: due giovani di due mondi diversi, ma uniti da uno stesso ideale; due sogni volti entrambi a realizzarsi alla grande; due vedute del futuro convergenti entrambe nell’orizzonte di una congenita telematia…con una sola «t». Partendo appunto da quest’ultimo aspetto, infatti, Sara è una ragazza italiana che ha intravisto uno sbocco alla sua carriera qui, nella lontana America e Saverio è un giovane italocanadese che, guarda caso, anche lui vede terre promesse in paesi lontani da quelli in cui è nato. È proprio vero che l’erba del vicino è sempre più verde: noi stessi, d’altro canto, non venimmo a costruirci il nostro avvenire lungi dal suolo nativo? Congenita telematia, come volevasi dimostrare!

A parte questo, eccovi i nostri giovani più da vicino. Sara De Luca da Teramo se ne è venuta qui a Montreal perché in Italia, con l’attuale vento politico-sociale che spira, non è tanto facile capire i propri sogni e, soprattutto, è difficile poterli mettere in pratica…ragion per cui i cervelli fugguno dal  nostro Bel Paese!  E sapete cosa è venuta a fare qui da noi? Che ci crediate o no è la coordinatrice agli eventi benefici dell’orchestra sinfonica di Longueuil: si interessa a garantire la continuità di detta orchestra, cercando di ringiovanire quella parte di pubblico che vede «invecchiare» nei confronti della musica di un certo livello come appunto quella classica. Saverio Lariccia, invece, è appassionato di musica leggera che rappresenta addirittura il suo stile di vita: ha cominciato  in casa «tamburellando»  sulle sedie di legno fino a quando non è arrivata la prima chitarra a permettergli di imitare i Beatles, ispirarsi a Little Tony e coltivare musica melodica. Alla giovane età di 35 anni ha all’attivo  un ben nutrito curriculum musicale che tra l’altro, in occasione del 50.mo del Cantagiro, lo ha portato addirittura a calcare il palco di detta kermesse tutta italiana…assieme al suo amico d’infanzia Davide da cui purtroppo si è artisticamente separato! 35 anni quasi tutti consacrati alla musica in cui crede fortemente e che costituisce la  sua convinzione ed il suo attaccamento: se non ne fosse stato così convinto non avrebbe mai iniziato; avendo iniziato continuerà perché se lascia si sentirebbe perduto; ma intravede orizzonti più vasti sia oltre confine che oltre oceano, come volevasi ancora una volta dimostrare! A proposito, se qualcuno non avesse mai visto in azione il mio figlioccio Saverio del «Gruppo Vu»  può togliersi questo sfizio a breve nel corso della ventunesima edizione della Settimana Italiana, durante la quale si esibirà ben due volte: venerdì 15 agosto sarà sul palco di Loto Québec presso il parco Dante alle ore 20 (otto di sera) e domenica 17 agosto, sempre nella Piccola Italia, questa volta sul palco situato sulla strada Saint Laurent all'angolo di Shamrock alle ore 19 (sette di sera). 

Ed allora, buona Settimana Italiana a venire e sempre «occhio ai nostri giovani talenti»…che ce ne sono eccome a continuare con entusiasmo ed orgoglio la nostra secolare italianità!   

 

 

samedi 14 juin 2014


GENTE  NOSTRA

Quando un emigrante partiva per l’estero, in un angolino della sua valigia di cartone, riponeva istintivamente l’amore per il suo paesello e la fede in Dio che lì gli avevano inculcato. Due valori forti dove attingere forza e coraggio per affrontare e superare le avversità di una vita verso l’incerto. Due  sentimenti profondi che, pur custoditi gelosamente nel cuore, è riuscito a trapiantare anche nelle terre da lui scelte come sua nuova Patria. Ecco il perché dei vari festeggiamenti e dei tanti pellegrinaggi in onore di questo o quell’altro santo patrono; ed è anche questo il perché delle numerose associazioni paesane messe su, lungo gli anni, dalla gente emigrante. Festeggiamenti, pellegrinaggi e sodalizi che, al tempo stesso che matenevano vivi i contatti con la Madre Patria, arricchivano di nuove vedute sociali anche quella adottiva. Oggi sono all’ordine del giorno e, forse, sanno pure di antico; comunque, su nel tempo, è soprattutto in tal modo che noi italiani abbiamo interagito in quello scambio interculturale, pacifico e costruttivo, con tutte le altre etnie venutesi a stabilire al nostro fianco in terra canadese: è quell’associazionismo che ha cambiato l’aspetto storico, politico e sociale di quelle terre dove gli emigranti sono andati a stabilirsi! Abbiamo mai pensato a ringraziare degnamente questi ignoti organizzatori di pellegrinaggi e feste patronali, nonché questi  fondatori di associazioni paesane? Eccovi, in questo contesto, il profilo biografico di uno che è stato capace di coinvolgersi con brillante risultato nel suddetto nostalgico trittico di sagre paesane: naturalmente è il profilo di uno dei tanti sconosciuti a cui voglio dare un filo di notorietà attraverso questo mio angoletto…altrettanto sconosciuto! Vi dico in partenza che ho pensato di dare spazio ad un compaesano che ammiro di cuore per il suo senso di responsabità e che vedo prodigarsi, ancora oggi, in queste attività paesane con lo stesso volenteroso entusiasmo dei tempi che furono. E lo faccio ben volentieri per il motivo che in questo 2014 l’associazione da lui fondata compie i suoi  primi 40 anni di vita.

       Questo solito-ignoto risponde al nome di Lino; è Campodipietra, un paesetto del Molise in provincia di Campobasso, a vederlo nascere il 20 giugno del 1934 da Giuseppina Cefaratti e Francesco Lamenta. Halifax, intanto, nel freddo febbraio del 1953 lo vede sbarcare dopo una lunga traversata transoceanica dalla nave Saturnia e prendere un treno alla volta di Montreal. Giunto in Canada alla giovane età di soli 19 anni gli è difficile staccarsi col pensiero dal paesello nativo dove pertanto è rimasta una piccola parte del suo cuore…cioè quella sinceramente legata alla sua amata Filomena: la dolce speranza dei suoi sogni! Vi ritorna dopo sette anni e il 18 luglio del 1960 coronano il loro sogno d’amore nella Basilica di Pompei presso Napoli. Dopo la parentesi matrimoniale e la rituale luna di miele il ritorno in Canada che, fatto in amorevole compagnia, risulta molto più confortante e pieno di speranze. E queste non tardano a divenire realtà perché nel 1962 arriva Frank ad allietare il loro focolare; in appresso, nel 1967 due stupende gemelle, Josephine e Lina vengono a completare il felice nucleo familiare. Ma se una volta si lasciava la terra natale per recarsi altrove, lo si faceva per trovare un buon lavoro onde sopperire alle necessità economiche personali e di famiglia. E Lino trova soddisfazione a questo suo bisogno presso la manifattura Standard Desk dove svolge la lusinghiera mansione di caporeparto: un significativo lavoro che gli permette di sbarcare il lunario in modo orgogliosamente decoroso e incoraggiante.

       Questo per quanto riguarda l’ambito domestico; ma per quel che concerne le vedute sociocomunitarie? E a tale proposito rientrano in gioco la nostalgia e il ricordo delle tradizioni e dei costumi di paese. Perché tante usanze di ricordevole sapore paesano non trapiantarle pure qui in terra forestiera e non condividerle con le nuove genti qui incontrate? A Campodipietra ogni anno si organizzava un pellegrinaggio a Monte Sant’Angelo sul Gargano in onore di San Michele Arcangelo protettore del paese. Perché mai, assieme a tutti i compaesani, non ripristinare  pure qui la pratica di una così sentita devozione? La stupenda idea diventa fatto vissuto il 5 settembre del 1971. Lino, coadiuvato dai compaesani Carmine Ritone e Mario Geronimo, mette in atto questo caro sogno presso il santuario Marie Reine des Cœurs nei pressi di St. Callixte, con soddisfacente afflusso di paesani e simpatizzanti. E quel giorno dovette essere stato abbastanza commovente sentirsi uniti alla Madre Patria nonché incoraggiati, appunto perché tutti insieme, ad affrontare l’avvenire con maggior sicurezza. Ed oggi che quell’avvenire non è altro che il ben superato passato, non mette un fremito al cuore e un nodo alla gola un così grande e bel ricordo?

In quegli anni 50 e 60 il problema dell’integrazione sociale era uno di quelli abbastaza delicati e sentiti; soli, spaesati e senza una conoscenza delle lingue locali era un po’ difficile sfondare nell’impatto multietnico in cui si era venuti a vivere. Perché dunque non mettere su un’associazione per riunire i compaesani, darsi un colpo di mano per meglio far breccia sul lavoro e in società, e soprattutto mantenere vivi i contatti con la Madre Patria? Nelle vedute di Lino  balena un improvviso raggio di luce: allargare il cerchio di azione del pellegrinaggio del 5 settembre dando vita appunto ad un’associazione campopietrese. É il 13 settembre di quello stesso anno allorché contatta i seguenti compaesani: Giuseppe Cefaratti, Michele Perrotta, Francesco Lamenta, Michele Lamenta e Angelo Di Maio per partecipare loro il suo progetto; i cinque amici ne accettano l’idea e tutti insieme danno il via ufficioso a quella che, ancora oggi, è l’Associazione Culturale di Campodipietra a Montreal, che nascerà ufficialmente nel febbraio del 1974 e verrà iscritta nei registri provinciali il 7 giugno dello stesso anno.

Il 12 agosto al paese è festa grande, si festeggia il prottetore San Michele Arcangelo. É un altro momento in cui si rivolge accoratamente lo sguardo al paesetto lasciato per rivivere, nel ricordo dei tempi giovani, la solennità di quella sagra paesana. Non è, questa pure, un’altra festività da celebrare anche qui…tutti i compaesani riuniti? Detto fatto: se ne parla in seno alla neonata Associazione Culturale e si decide di organizzare l’avvenimento la seconda domenica di agosto, in unione di spirito e in sintonia con quella al paese: correva l’anno 1976…ed a tutt’oggi la tradizione è sempre più in auge!

       Nel tessuto sociale canadese queste «storie di tutti i giorni di noi brava gente»  hanno avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo sia dei paesi di provenienza che di quelli ospitanti. Il corso storico di essi  è andato trasformandosi, la mentalità sociale si è andata evolvendo, l’andamento economico è andato migliorando, il pensiero politico si è andato globalmente aggiornando. Tutto ciò anche perché ci sono stati uomini come questi fondatori di sodalizi e organizatori di sagre paesane che, magari senza una specifica istruzione ma dotati di «caparbie» iniziative, lentamente nel tempo ma giorno dopo giorno, hanno permesso pure alla gente comune e normale di porre la sua piccola firma in fondo al grande libro della cultura italiana in terra emigrante. Un pensiero di riconoscente gratitudine, dunque, a tutte queste piccole-grandi personalità che hanno saputo ingranare una marcia in più per far estendere a macchia d’olio la trasparenza della nostra italianità…che ci auguriamo di cuore che venga presa in considerazione, nonché allargata nel tempo e nello spazio anche in appresso. A voi giovani, dunque, questo nobile compito!

samedi 24 mai 2014


HO VISTO IN FACCIA UN SANTO

       Se mi permettete, vorrei trattenervi ancora in paradiso per approfondire il discorso sul santo a cui  ho accennato di sfuggita nel mio spot precedente che, come ben ricorderete, è san Pio da Pietralcina. È un santo abbastanza popolare e mi riempie di particolare orgoglio perché ho avuto modo di conoscerlo di persona.

Prima, però, vorrei fare un’osservazione sul modo in cui a volte lo sento chiamare.  Infatti alcuni dicono «san Padre Pio»; questo, a mio avviso, non è tanto ortodosso e ve ne spiego il perché. Nel linguaggio ecclesiastico vi sono alcuni appellativi che stanno a specificare il grado gerarchico delle personalità del clero. Eccovene alcuni: fra, padre, reverendo, don, monsignore, eccellenza, eminenza, santità; e poi dopo morte: servo di Dio, venerabile, beato, santo; a questo punto va precisato che il passaggio ad un grado superiore abolisce automaticamente il titolo precedente. Venendo al caso specifico di san Pio, quando era studente veniva chiamato “fra Pio” e dopo aver preso messa “padre Pio” ; dopo la sua morte è stato prima venerabile, poi beato e infine santo…perdendo di volta in volta l’appellativo precedente. Di conseguenza il modo corretto di chiamarlo dovrebbe essere o san Pio e basta, oppure san Pio da Pietralcina; ma se proprio proprio ci tenete o pensate che possa più facilmente farvi qualche grazia, chiamatelo pure san Padre Pio…che non è peccato!

E adesso possiamo venire a noi!  A inizio anni sessanta ero un giovane studente liceale; frequentavo il secondo anno allorché il  preside dell’istituto in cui studiavo, a fine anno scolastico, chiese ed ottenne dal  superiore del convento di Santa Maria delle Grazie in San Giovanni Rotondo il permesso di far trascorrere ad alcuni studenti meritevoli una giornata con i frati del convento e di incontrare pure padre Pio. Tra quella diecina di fortunati ci fui pure io perché, a detta del mio professore di italiano, “come facevo i compiti io non li faceva nessuno”: il pallino della penna, quindi, devo averlo proprio nel sangue o nel DNA, come si dice adesso. Tralasciando altre cose, a mezzogiorno ci fecero entrare nella sala pranzo, che loro chiamano refettorio; io mi trovavo seduto sulla parete a sinistra della porta di accesso, proprio di fronte alla tavola principale riservata al superiore e ad altri frati di una certa importanza; all’estremità destra di quella tavola, quasi di fronte a me, c’era il posto di padre Pio. Questi intanto fu l’ultimo ad arrivare e appena lui entrò automaticamente cademmo tutti in emozionato silenzio; «Continuate, continuate a parlare –disse lui dirigendosi al suo posto-  non è arrivato nessuno!». Era accompagnato da due frati e si muoveva lentamente quasi trascinando il peso del suo corpo; solo quando si sedette potemmo guardarlo in faccia: un volto delicato e luminoso, completamente in contrasto con quella sagoma pesante che aveva attraversato la sala poco prima! Sembrava che da un momento all’altro si  sarebbe potuto sollevare da terra!  Il suo pasto, intanto, «simile a quello di un uccellino», come ci fece notare il padre guardiano…che poco dopo, rivolgensosi al santo gli disse: «Padre Pio, non la raccontate una barzelletta a questi studenti?». Anche Pippo Franco ha sottolineato una volta la vena scherzosa di padre Pio ed io mi chiedo se, forse, non scegliesse l’argomento delle sue barzellete a seconda del pubblico che aveva dinanzi; a noi infatti, forse proprio perché eravamo studenti, raccontò una sul dottorato. Eccovela: «Una volta al mio paese ci fu un giovanotto che si recò in città per ragioni di studio. Una volta laureato se ne tornò al paese dove tutti cominciarono a chiamarlo «dottore». Una vecchietta sua vicina di casa, che quando il dottorino era piccolo gli aveva pulito pure il nasino, lo chiamò e gli chiese: «Famme sentì Pasqualì, chi ti chiama dottore a destra e chi ti chiama dottore a sinistra; ma dottore di che sì?». «Ehi zè Marì …sono dottore in fi-lo-so-fia!». “Mamma mia –replicò la vecchietta-  è sciuta nata malatia mò?”. A questo punto voglio dirvi una cosa; la memoria non è mai stata il mio forte ed anche le barzellette oggi ne ascolto una e domani l’ho già bella e dimenticata; non sono ancora riuscito a capacitarmi come mai questa raccontata quel giorno da padre Pio l’ho sempre ricordata a memoria. E ci penso e ci ripenso e più ci penso e più mi meraviglio!

Fu dopo il pranzo che potemmo anche avvicinarci al frate dalle stimmate e parlare con lui. Una suora del mio  paese mi aveva raccomandato di fargli sapere che spesso lei gli scriveva e chiedeva che fosse lui personalmente a risponderle. Glie lo dissi veramente e lui, quasi tra il burbero e il faceto (ancora un riscontro del suo dualismo sottolineato da molti), mi rispose secco: «Diccelle ca ze lu pò scurdà!». Intanto vedere padre Pio a tu per tu fu una cosa che non dimenticherò mai. Il contrasto in lui tra cielo e terra lo rimarcai ancor più in quegli istanti che gli fui vicino; guardavo il suo corpo e lo vedevo per terra, lo guardavo in faccia e lo vedevo in un’altra stratosfera, quasi fuori da questo mondo; anzi,  ad un certo punto lo guardai negli occhi e mi sembrò che lui, guardandoci, si chiedesse come mai  noi fossimo tanto interessati alle cose terrene…quando invece sarebbe stato meglio farsi prendere da pensieri  superiori  e da ideali  ben più elevati. Comunque, ci pensate?  Durante il periodo della mia giovinezza ho conosciuto padre Pio; ho parlato con lui ed ho mangiato con lui; ancora oggi, intanto, mi porto dietro il grande orgoglio di poter dire che «ho visto in faccia un santo»!  

dimanche 4 mai 2014


        I  SANTI  DELL’ORIGINARIO    

Quando poi ognuno vuol dire la sua, a dritta e a manca e soprattutto  a vanvera, allora mi arrabbio e mi viene voglia di rispondere per le rime; e, visto che mi riesce anche bene perché sono un poeta, stavolta lo voglio fare per davvero. Domenica, 27 aprile 2014, Sua Santità papa Francesco I ha iscritto nel catalogo dei santi due suoi significativi predecessori: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II; a completare il quadro pontificale nello sfondo di Piazza San Pietro c’era pure un quarto papa: quello emerito, Benedetto XVI! Un dato di fatto più unico che raro nella storia della Chiesa; un avvenimento tanto unico che, pur non essendo profeta, ognuno sa che di certo non si riscontrerà mai più nel corso dei secoli a venire.

        La stessa sera, dando un’ultimo sguardo ad internet, il mio occhio si sofferma su di un’immagine di papa Wojtyla…clicco e vado a leggere rapidamente l’articolo. L’autore portava a conoscenza che da più parti si era insinuato se veramente fosse degno di essere santificato un pontefice che non si era saputo adeguare al passo dei tempi in materia di aborto, contraccezione, di gente gay e di altri simili, ma pur sempre ben discutibili, punti di vista che caratterizzano l’odierna società. Detta denigrazione mi ha subito fatto venire in mente le prime pagine di alcune riviste e rotocalchi dell’ottobre 1978, al tempo della fumata bianca che lo faceva salire al soglio pontificio. La sua insigne figura veniva spesso affiancata da quella di una donna, sempre la stessa, sua amica di gioventù. Ma sin dalle sue prime battute e dai suoi primi passi Giovanni Paolo II il Grande fugava ogni ombra con cui si cercava di imbrattare la sua immagine di uomo di Dio. In ogni modo, un pio sacerdote una volta mi disse che santo non è chi è senza peccato, bensì chi combatte affinché questi scompaiano dalla faccia della terra. E doveva avere proprio ragione perché ho sentito dire che anche «i santi  peccano sette volte al giorno».

        Lo zelante giornalista on line deve essere abbastanza giovane; se, per esempio, fosse della mia generazione o giù di lì, avrebbe avuto qualcosa a ridire pure di Giovanni XXIII. Ricordate san Pio da Pietralcina? Ebbene, negli anni ’60 si trovò nell’occhio di un ciclone diffamatorio perché le sue stimmate vennero incomprensibilmente messe in discusione. Per indagare e riferire in merito, si recò a San Giovanni Rotondo uno dei luminari della medicina del tempo: padre Agostino Gemelli, fondatore della nota Università Cattolica. Il suo responso, intanto, non fu affatto favorevole al povero fraticello che si vide relegato a celebrar messa in una cappella privata del convento, invece che nella chiesa aperta al pubblico…lo scorrere degli anni, però, ha dato ragione al pio cappuccino! Ma, visto che i fatti si svolsero sotto il pontificato di Giovanni XXIII, dobbiamo togliere pure a lui l’aureola dalla testa?  

        Le gesta del papa polacco sono ancora all’ordine del giorno; allora le tralascio per dare un pò di spazio a qualcosa di papa Roncalli; qualcosa che lo rende degno del suo ministero e ci fa capire perché anche lui, al pari del suo consanto è stato definito da papa Francesco come riformatore della Chiesa in modo «originario». Ho virgolettato l’aggettivo perché non è in modo originale, bensì originario: cioè che porta la Chiesa alle origini evangeliche…origini a cui lui pure, Francesco, sta dando un accento più che significativo! Quanti di noi sanno che la Santa Messa, una volta, la si celebrava solo di mattina e solo in lingua latina? É con papa Roncalli che le cose sono cambiate! Adesso andiamo a prendere la Santa Comunione senza nessuna restrizione; prima per comunicarsi bisognava essere digiuni dalla mezzanotte: fu il «papa buono» nel 1959 ad  abolire predetto digiuno. Se non vado errato, fu pure sotto il suo pontificato che  si fece largo alla «messa a gò-gò», cioè di stampo meno gregoriano e accompagnandosi pure con chitarra e  fisarmonica. Queste, comunque, sono solo alcune delle riforme di carattere «popolare, quasi terra terra» effettuate da colui che noi giovani del paese avevamo preso l’abitudine di chiamare «u paparielle»…senza entrare nel merito di quelle prettamente «teologiche», e senza parlare nemmeno dei primi approcci, già in quegli anni di guerra fredda, tra il Vaticano e il mondo comunista.  

        Dopo questa mia arringa in favore del  papa del «se sbaglio mi corriggirete» e di quello del «discorso della luna», vorrei chiedere al sopra citato «avvocato del diavolo» se conosce il significato di quest’ultima espressione, divenuta ormai quasi un detto popolare. Ebbene, sono quegli avvocati che, in un processo di canonizzazione,  mettono il bastone tra le ruote a quelli che ne stanno perorando la causa! Sono cioè gli avvocati dell’accusa; e ce la mettono proprio tutta per non farli santificare e non fare, loro stessi, la figura degli «avvocati delle cause perse»…e di certo ne avranno mossi di cavilli e ne avranno trovati di peli nell’uovo a sostegno e conferma delle loro accuse; ma sono stati scornati! Ed allora, fidiamoci del verdetto di papa Francesco, preghiamoli sia per noi che per gli altri questi due nuovi santi; ma soprattutto chiediamo ad essi di far camminare l’uomo sempre sulla giusta strada: quella della giustizia e dell’amore!       

        p.s.   A partire da Celestino II (Ex Castro Tiberis) Malachia, profetizzando la nomina di ben 112 papi, ecco come definì gli ultimi 6 prima di Bergoglio…che sono poi quelli presenti anche in questo mio cammino su terra. Pastor Angelicus, Pio XII; Pastor et Nauta, Giovanni XXIII; Flos Florum, Paolo VI; De Medietate Lunae, Giovanni Paolo I; De Labore Solis, Giovanni Paolo II; De Gloria Olivae, Benedetto XVI. Non so se ne abbia tralasciati altri, ma subito dopo parla di uno che «nell’estrema persecuzione della Santa Romana Chiesa regnerà Pietro Romano, che pascerà il gregge tra molte tribolazioni, passate le quali la città dei sette colli sarà distrutta e il Giudice supremo giudicherà il suo popolo». Meno male che quello attuale si è chiamato Francesco; ve la immaginate, qualora avesse preso il nome di Pietro, la coda dei penitenti dinanzi ai confessionali?!