ANCHE QUESTA È AMERICA ©
(I racconti di
Giuseppe scritti dal Maestro Cuore)
IL CAFFÈ
Correvano
i tempi in cui Giuseppe fu messo come responsabile nel magazzino della fabbrica
dove lavorava. Al momento della sua nomina il posto era già vacante da un pezzo
e, quando lui ne prese possesso, ebbe come l’impressione di trovarsi in mezzo a un completo sottosopra da capogiro e gli ci vollero
parecchi giorni prima di rimetterlo in ordine come si doveva. Ma con un po’ di
buona volontà e con una buona dose di pazienza riuscì a sistemare ogni cosa ad
arte e mestiere. Fatto questo si prefisse di mettere un certo ordine pure nella
testa degli operai perché ce n’era veramente bisogno. Nel lasso di tempo che il
magazzino era rimasto senza sorveglianza ognuno si era lasciato andare al più
sconsiderato self service, gettandosi alle spalle ogni senso di responsabilità.
Chi entrava e chi usciva, un continuo andirivieni per prendere materiale e
attrezzi che, tra l’altro, difficilmente vedevano una via di ritorno. Intanto si
erano talmente abituati a fare da soli che adesso lui, il magazziniere, si
vedeva lì a mo’ di mazza di scopa. Sapete cosa si sentì dire un giorno da un
manovale? “Ah si, hanno messo un magazziniere adesso qui?”. Detto tra noi, solo
alcuni haitiani si comportavano con senso di civismo e con correttezza. Gli
altri, invece, avevano tante di quelle cose da fare che non potevano perdere
tempo a chiedere o a farsi servire da lui! Dovevano sbrigarsi, loro, perché
ogni attimo perso voleva dire produrre di meno. E come avrebbe fatto la
compagnia ad andare avanti senza il loro valido supporto? Come comportarsi
allora, stando così le cose? Usare le maniere forti oppure adattarsi
all’andazzo di quei signori lì? Né l’uno e né l’altro! Giuseppe fece ricorso
ancora una volta a una saggia attesa e a una perseverante pazienza, ben sapendo
che “è col tempo e con la paglia che maturano le nespole”. Perciò cominciò a
fare un lento, ma continuo, lavaggio di cervello a tutta quella gente; e il
sistema funzionò perché, ben presto, quasi tutti cominciarono a rigare dritto
come Giuseppe voleva e come il buon senso di collaborazione richiedeva.
Abbiamo
detto “quasi” tutti; e, in effetti, la perfezione veramente perfetta non
esiste. Sono sempre esistite, invece, le pecore zoppe e non poteva essere di
certo quella manifattura lì a fare eccezione alla regola. Per farla breve,
alcuni “vandali” erano rimasti a invadere il territorio di Giuseppe e a
costringerlo a fare bottoni e sangue amaro. Quasi a conferma che “il pesce
puzza dalla testa”, alcuni di questi facevano parte proprio dei capoccia. Uno
per esempio era Alfredo, il caposquadra cattivo che, per il suo carattere
antipatico e altezzoso, si era meritato l’appellativo di “chien sauvage”. Un
altro era Alberto, il più anziano della compagnia che, appunto a causa della
sua seniorità, si riteneva un padreterno a cui era permesso tutto.
Avvantaggiati non tanto dalle loro capacità, quanto dall’autorità loro
conferita, erano divenuti i classici esempi del cosiddetto abuso di poteri. E come
faceva Giuseppe a contraddirli se quelli avevano completa carta bianca, mentre
ognun’altro operaio alla parte patronale appena appena poteva permettersi di
dire “buon giorno” quella rara volta che la vedeva aggirarsi per i locali dello
stabile?
Un
giovedì pomeriggio il magazziniere si era assentato per portare qualcosa a un
assemblatore. Di ritorno al suo posto vide “le chien” uscire dal magazzino dopo
essersi servito abusivamente. Allora Giuseppe lo chiamò e garbatamente gli
disse: “Scusa Alfredo, ma quando prendi della roba lì dentro dimmelo,
altrimenti io perdo il controllo dello stoccaggio!”. Non l’avesse mai detto ché
subito l’altro fece il punto della situazione: “Io qui dentro faccio quello che
ho sempre fatto e non sei di certo tu la persona che può darmi ordini
contrari!”. Nel frattempo stava sopraggiungendo Alberto che, avendo sentito
tutto, subito rincarò la dose: “Se tu non sei capace di vedere cosa manca e
cosa non manca nel tuo stockerumme, mica è colpa nostra!” e si allontanò
facendo una strizzatina d’occhio ad Alf. Quando, l’indomani, Giuseppe fu visto
uscire dall’ufficio tutti sospettarono che Alfredo gli avesse “offerto un
caffè”, come dicevano loro quando qualcuno veniva fatto rimproverare dall’alta
direzione. Comunque l’euforia
del fine settimana, quasi giunto, fece passare l’accaduto in second’ordine e il
lunedì successivo tutto riprese come di consuetudine. L’unica cosa insolita
fu quella di notare, proprio di fronte al magazzino, la finestra del corridoio
che porta all’ufficio non illuminata e la porta accanto chiusa. Intanto anche
sulla porta del “regno di Giuseppe” si notò un vistoso cartello con sopra
scritto: “Vietato entrare senza permesso!”. Erano all’incirca le undici quando
Alfredo, supponendo che l’avviso non lo riguardasse, vi entrò per servirsi
personalmente come era ormai solito fare. Dopo poco pure Alberto ne seguì
l’esempio infischiandosi a sua volta dell’interdizione. Fu in quel preciso
istante che la finestra del corridoio si illuminò e la porticina adiacente si
aprì. Ne uscì il padrone in persona che, avvicinandosi al “luogo del delitto”,
chiamò tutti a raccolta. Senza prediche o ramanzine, venendo subito al dunque
ingiunse ad Alfredo e ad Alberto di leggere quanto c’era scritto sul
cartellino. E quelli lo fecero, l’uno dopo l’altro, dinanzi a tutti e a voce
alta. Dopo di che il padrone sentenziò: “E allora, miei cari amici, cercate di
rispettare tutti indistintamente gli ordini che vi si danno!”. Poi, mentre il
gruppetto si scioglieva e lui si allontanava, rivolgendosi di nuovo ai
trasgressori continuò: “A proposito, invece di offrire troppi caffè ai vostri
operai, cercate di dare loro un po’ più di buon’esempio!”.
E
da quel giorno Giuseppe visse felice e contento nel suo reame rimesso in ordine
e con tutti i suoi sudditi subordinati e collaborativi. Intanto nessuno seppe
mai che il venerdì precedente aveva avuto l’ardire di andare a chiedere e
ottenere dal datore di lavoro un colloquio a tu per tu, nel corso del quale gli
aveva fatto luce su alcune cose di cui lui…era all’oscuro!
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